Cultura

Che fatica dire democrazia!

il linguaggio della politica quante parole a doppio taglio

di Redazione

La first lady egiziana e la regina di Giordania vogliono rompere il silenzio a cui sono costrette le donne nel mondo arabo. E sfuggono quella parola… di Fatima El Harki S icurezza umana. Il nuovo termine a cui ricorrono le first lady dei Paesi arabi impegnate a dar voce al silenzio di molte donne. In occasione della seconda Conferenza sulle donne arabe tenutasi a metà novembre ad Abu Dhabi, negli Emirati, e finalizzata alla promozione di nuove prospettive e processi di pace per garantire l’affermazione della donna nei diversi campi della vita politica e sociale attraverso la sicurezza umana. Quest’ultimo paradigma così come lo concepisce Suzanne Mubarak, la first lady egiziana, è condizione necessaria per la pace, che sta alla base dei diritti umani, un buon governo, l’accesso all’educazione e alle cure sanitarie.
La regina della Giordania, la bella Rania, lo definisce riprendendo due delle quattro libertà citate da F. D. Roosevelt durante gli anni del New Deal, ovvero libertà dalla paura e libertà dal bisogno. La cosa che mi ha colpito, però, è che durante la conferenza nessuna di queste lady ha utilizzato il termine democrazia. Come mai? A parte che “democrazia” è un termine che non piace neppure ai loro mariti che da decenni comandano solo loro, non esiste, in arabo, una parola che corrisponda a democrazia se non il vocabolo “dimuqratiyya”, di origine greca. Non esiste, quindi, se non come un concetto di importazione coloniale o come, secondo quanto sostiene la scrittrice marocchina Fatema Mernissi, una malattia ideologica dell’Occidente che può essere definita con il vocabolo “gharb”, ovvero “luogo dell’oscurità e dell’incomprensibile che mette sempre paura”.
Gli arabi non temono la democrazia, piuttosto manca loro quel passaggio storico che ha permesso il fiorire della società civile in Occidente, l’umanesimo e il suo apporto fondamentale in termini di libertà di opinione, sovranità dell’individuo e tolleranza. Allora, a spaventare diventano proprio queste libertà, “hurriyat”, a cui vanno posti dei limiti, “hudud”, che impediscano la possibilità di intaccare i valori propri dell’Islam.
La cultura e la religione del mondo arabo-islamico è ricca di idee, di linguaggi e di testi che invitano alla tolleranza, all’accettazione dell’altro e alla consultazione. Tuttavia si incontrano anche il fanatismo, il dispotismo e l’oppressione culturale, politica e confessionale; sentimenti che vengono giustificati in nome della fede e che portano al rifiuto della democrazia e dei diritti umani. Se da un lato è vero che nella tradizione islamica ci sono elementi di governo non democratico, dall’altro però si trovano anche elementi di tipo contrattuale e consensuale, che potrebbero favorire l’interiorizzazione della democrazia. Quindi, cercando di capire quanto il linguaggio e l’uso delle parole sia importante nel vocabolario politico e nella comunicazione in generale, e quanto sia importante attenersi ad un certo format linguistico per evitare la manipolazione delle idee, la domanda da porsi potrebbe essere: «Che cosa c’è in un nome?». E se per un istante ci si allontana dalla parola in sé e si cerca di trovare il nocciolo dei concetti, la risposta potrebbe essere: «Quel che noi chiamiamo rosa, anche se lo chiamassimo d’un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo».
La creazione di nuove leadership, ideologie e progetti, è l’obiettivo (al contrario dei loro mariti) che Suzanne Mubarak e le altre first ladies si pongono, pur sapendo che la strada è molto lunga.

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