Welfare

Che fare se solo il 2% vuole un lavoro

Sta per partire la nuova social card. Ma Tiziano Vecchiato (Fond. Zancan) è disilluso: «non siamo capaci di attivare le persone per uscire dalla povertà».

di Sara De Carli

Come il sottosegretario Maria Cecilia Guerra ha anticipato a Vita.it la scorsa settimana, in primavera, sotto il Governo che uscirà dalle urne di febbraio, partirà la sperimentazione di una nuova social card. Si tratta di uno strumento radicalmente diverso dalla social card tradizionale lanciata da Tremonti nel 2008, che punta sull’affiancare all’erogazione monetaria (molto più alta della social card tradizionale) l’attivazione delle persone. L’idea è che questa sperimentazione sia la base per poi andare a definire uno strumento stabile di lotta alla povertà. Con Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan, analizziamo le prospettive di questo nuovo strumento.

Quanto è “rivoluzionaria” l’idea di affiancare ai soldi un progetto personalizzato e coinvolgere le persone nelle politiche attive, condizionando anche l’erogazione a un minimo di attivazione? Il sottosegretario Guerra ha citato la frequenza della scuola da parte di figli, i contatti con il Centro per l’Impiego…
Di per sé l’idea di non limitarsi a erogare dei soldi ma di puntare su un progetto personalizzato che attivi le persone a uscire dalla povertà non è una novità, se è vero che anche la sperimentazione della Turco, la prima, era collegata alla 328 e appunto a un progetto personalizzato. Allora la cosa era fallita perché un conto è dirlo o scriverlo in un decreto, altro è farlo veramente. A Trento c’è in corso una sperimentazione sul reddito di garanzia, e solo il 2% delle persone che ne beneficiano è interessato a trovare un lavoro, sente il bisogno e vuole uscire dalla condizione di assistito…
Cosa vuol dire?
Che bisogna che i servizi siano davvero capaci di attivare le persone, non che si limitino a scrivere su un foglio che attivano un progetto personalizzato. Perché nella realtà poi finisce spesso che questo “progetto” si traduce in “raccomandazioni” all’utente a fare alcune cose e nell’obbligarlo a una formazione che gli risulta mediamente inutile, perché finalizzata ad ampliare le sue conoscenze e non a un impiego. Mi spiego: se una deve andare a fare la badante, non gli serve il corso di informatica…
Quel 2% che citava è impressionante…
Diciamo che ad oggi nel nostro Paese le sperimentazioni con buone intenzioni e con il progetto personalizzato non hanno dato risultati incoraggianti. D’altra parte Tremonti per la sua social card è stato molto trasparente introducendo la valutazione di processo e di risultato, cioè tutti i numeri di quanto costa e quante persone ha raggiunto, ma non ha fatto alcuna valutazione di esito. Della social card tradizionale noi sappiamo che ha dei costi di infrastruttura molto più elevati di quelli che arrivano nelle tasche di chi ne beneficia, ma non sappiamo nulla su quanto quei soldi abbiano aiutato veramente quelle persone.
Quali aspettative quindi possiamo avere rispetto alla nuova sperimentazione?
La novità positiva sta nell’aver capito che prima di prendere decisioni politiche e sposare uno strumento è utile prima sperimentarlo e valutarne l’impatto. Questo senza dubbio. L’altro elemento positivo è che si è scelto il meglio, cioè le grandi città riservatarie. Se non ce la fanno loro non ce la fa nessuno.
Perché?
Intendo dire che nelle città c’è sempre maggiore capacità di risposta e di servizi. I territori sono più deboli: se mancano le infrastrutture di professionisti che seguono le persone, io posso dire quello che voglio, ma alla fine faccio solo trasferimento di denaro.
La sperimentazione è allargata a tutti i comuni della Sicilia, anche i più piccoli…
Storia già vista. Lì è una missione impossibile.
Secondo lei sarebbe utile introdurre ulteriori correttivi per dare maggiori prospettive a questa sperimentazione? Quali?
Sarebbe utile trasformare la social card nell’unico canale di trasferimento. La spesa per l'assistenza sociale in Italia è di 51 miliardi di euro e di questi 40 sono trasferimenti in denaro. Le misure di contrasto alla povertà sono 65 in Italia, a cui si aggiunge la social card, la sessantaseiesima: alcune sono per anziani, altri per minori, quindi lo stesso soggetto non può beneficiare di 65 strumenti, ma di una trentina sì. Se la social card diventa l’unico canale, diventa immediatamente chiaro quanto ricevo e anche quanto ricevo in più. Non è cosa prevista, ma non ci vuole molto a farlo. Tra l’altro è la strada scelta dalle piccole fondazioni e dalle diocesi, nella gestione dei vari fondi famiglia lavoro.
Perché questo sarebbe utile, oltre a dare un’informazione più chiara sui sussidi dati a ogni persona?
Perché così sarebbe più semplice anche fare un progetto unico su quella persona, piuttosto che avere tanti microprogetti frammentati che vanno ognuno per conto suo. A quel punto sarebbe più facile valutare esito e beneficio. Le faccio un esempio…
Prego…
Il nostro sistema è come un acquedotto pieno di falle. La nuova social card potrebbe essere il nuovo acquedetto, è doveroso provarlo per verificare che non ci siano falle. La tracciabilità elettronica è già un passo importante.
Resta il problema dell’infrastruttura professionale. Se vuol dire che abbiamo bisogno di più operatori, la strada è chiusa…
C’è bisogno che le persone che già ci sono facciamo due cose anziché una. Devono fare il progetto e la valutazione di esito, per ogni caso trattato. L’obiettivo è capire quanto l’aiuto ricevuto ti ha aiutato a uscire dalla povertà, non a sopravvivere dentro la povertà. Altrimenti siamo sempre lì.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA