Sostenibilità

Che fare se le criptovalute consumano più energia della Norvegia?

Le criptovalute hanno un enorme impatto ambientale. La loro sostenibilità non passa solo dalla riduzione dei consumi, ma anche dal riutilizzo del calore prodotto

di Luca Cereda

Le criptovalute consumano una quantità di energia tale da poter essere messe a confronto, nelle classifiche del consumo energetico, addirittura con vari Stati. Secondo l’indice aggiornato in tempo reale dall’University of Cambridge, per “produrre” i Bitcoin (la principale fra le monete virtuali) servono 142 Terawatt all’anno, poco meno dell’intero consumo dell’Egitto o della Polonia (149 entrambe), più di quello dell’Ucraina e della Norvegia (124) e della Svezia (123). L’Italia, con 60 milioni di abitanti, è a quota 286 Twh. Il fabbisogno energetico di Google è sette volte di meno. Non è facile spiegare come fanno le criptovalute a provocare un simile dispendio energetico.

Tutto ha un costo energetico, anche la valuta digitale

Un passo indietro prima di entrare nel cuore del problema e delle possibili soluzioni: le chiamano criptovalute e già il prefisso “krypto”, dal greco nascosto, avverte del fatto che vanno maneggiate con cura. E gestite con ancora più attenzione. Che i device tecnologici, dai pc agli smartphone, draghino una considerevole quota di energia non è più una novità. I data center pesano per l’uno per cento della domanda, con la bolletta mondiale dei Cloud che vale 60 miliardi di euro che, come per i server dei motori di ricerca e dei social, hanno continuo bisogno di sistemi di raffreddamento e le Big Tech sono alla ricerca di soluzioni innovative d’ogni genere. Microsoft, ad esempio, ha fatto un accordo con la compagnia pubblica finlandese Fortum per trasformare il calore in eccesso prodotto dagli enormi impianti fuori Helsinki, in riscaldamento per 250mila case della zona attraverso 900 chilometri di tubature. Ma se si pensa che anche le nuove opere d’arte digitali Nft (Non Fungible Token) divorano una quantità di energia pari a quella usata da un Paese come il Brasile, si capisce che la questione del consumo “digitale” è lontana dall’essere risolta: le soluzioni individuali – tipo svuotare la casella mail così da richiedere meno spazio ai server – per quanto etiche e importanti restano assai limitate. Rimane la voragine delle criptovalute.

Come funzionano le criptovalute…

Il primo elemento è semplice da afferrare, nonostante la volatilità della valuta: i consumi delle cripto aumentano proporzionalmente alla loro quotazione. Lo scenario più pessimistico delineato da Cambridge si spinge a stimare un consumo di 500TWh l’anno nei periodi più caldi della scorsa primavera. Per avere un’idea la Gran Bretagna si ferma attorno a 300TWh consumati. Insomma, più è alta la quotazione e più energia richiede. Il consumo di energia proviene dal complesso sistema di certificazione delle transazioni delle criptovalute maggiori: il Bitcoin permette transazioni che evitino qualsiasi tipo di intermediario bancario e per verificare la veridicità della transazione subentra una “gara” per risolvere un complesso quesito crittografico che richiede tentativi per indovinare la giusta composizione di numeri e lettere che fornisca la soluzione. Il primo che riesce a trovarla “certifica” il suo aggancio del blocco alla blockchain – letteralmente “catena di blocchi” – una struttura di dati condivisa e “immutabile”, definita come un registro digitale le cui voci sono raggruppate in “blocchi”, concatenati in ordine cronologico, e la cui integrità è garantita dall’uso della crittografia – con il conseguente compenso in bitcoin. Un’operazione che avviene ogni dieci minuti e che viene ricompensata con 6,25 bitcoin.

L'articolo prosegue su Morning Future.

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