Roberto Cardaci, Pierluigi Dovis e Paolo Griseri hanno recentemente pubblicato un volume “Poveri nella città” in cui descrivono la situazione dei poveri a Torino. Il volume si chiude opportunamente con un capitolo dal titolo “che fare?”. Riflettere su tali analisi può aiutare il mondo della filantropia istituzionale ad elaborare delle strategie in grado di rispondere ad una situazione che si sta rivelando sempre più drammatica.
Dall’analisi emerge come la povertà emergente sia fortemente collegata con il problema del lavoro e come quindi ogni politica volta ad arginarla non può prescindere dallo sviluppo di politiche occupazionali. Da questo punto di vista è importante notare come vi sia un crescente numero di persone in condizione di forte vulnerabilità sociale a cui non è possibile venire incontro in quanto i loro redditi o quelle del loro nucleo familiare sono al di sopra della soglia prevista per l’erogazione delle prestazioni, ma che potrebbero facilmente cadere nella povertà vera e propria.
Ora queste persone hanno chiaramente delle esigenze e hanno risorse, il problema è che le loro risorse non sono sufficienti per coprire il costo dei servizi di cui necessitano. Se, attraverso contributi pubblici, gli interventi della filantropia istituzionale, la mobilitazione delle donazioni e del volontariato, fosse possibile integrare tali risorse così da rendere possibile la produzione di questi servizi a prezzi calmierati si potrebbero conseguire due obiettivi importanti, rispondere alle esigenze di queste persone evitando di farle cadere in una situazione di povertà da cui potrebbe poi essere difficile risollevarsi e nel contempo generare lavoro con tutte le conseguenze positive che ciò comporta. In pratica bisognerebbe trovare il modo di promuovere forme di imprenditoria sociale che, grazie alla possibilità di mobilitare risorse aggiuntive, possono rivelarsi sostenibili, là dove le imprese tradizionali sono destinate al fallimento.
Un’altra considerazione che dovrebbe essere alla base di ogni strategia per contrastare la povertà nasce dalla constatazione di come essa sia strettamente legata a fenomeni di solitudine, fragilità, propensione alla depressione. Questa povertà di relazione che si traduce nella difficoltà con cui queste persone riescono a costruirsi e a curare il senso della propria esistenza, genera una sfiducia che si trasforma in un serio disagio psicologico fatto di ansia ed angoscia, disagio che impedisce di mobilitare quelle risorse che pure esistono in ogni persona, dando vita a delle spirali negative, vere e proprie sabbie mobili da cui diventa quasi impossibile uscire.
A queste esigenze non si risponde erogando semplicemente servizi, ma favorendo l’emergere di relazioni, compito che dovrebbe essere la funzione principale del mondo del volontariato, mondo che invece viene spesso utilizzato in via strumentale per sostituire, a costo zero, delle figure professionali che il sistema welfaristico non si può più permettere a seguito dei tagli di bilancio su assistenza e sanità che tutti i governi negli ultimi decenni, non si sono peritati di decretare. Il volontario, forse meglio di chiunque altro, è infatti in grado di farsi parte della vita delle persone, aiutandole a non sentirsi più sole, ponendo così le basi per riscoprire le proprie potenzialità, evitando di cadere in quella deriva assistenzialistica che invece ha caratterizzato il welfare in questi ultimi decenni e che, anche per ragioni economiche, oltre che morali ed etiche, non ci possiamo più permettere.
Il vero obiettivo deve infatti essere quello di aiutare la persona ad assumere le proprie responsabilità e a sviluppare forme di auto imprenditorialità proprie e del proprio nucleo familiare. Il servizio, attraverso lo sviluppo di standard sempre più sofisticati, mira a eliminare o a ridurre le criticità, cosa senz’altro lodevole, ma che, se vuole essere veramente efficace, deve subordinarsi alla prima esigenza, onde per cui gli autori richiamano all’importanza di promuovere interventi che sappiano sostituire la standardizzazione dei servizi con processi che li rendano flessibili e abbiano nelle relazioni il loro fondamento. La semplice erogazione di prestazioni ha infatti dimostrato la propria sostanziale inefficacia, se si considera che nei decenni passati, malgrado la notevole crescita economica che ha caratterizzato la nostra società, il numero dei poveri sia rimasto sostanzialmente costante.
Infine appare evidente come sia fondamentale lo sviluppo di una strategia che coinvolga una pluralità di attori. L’esperienza mostra però come i tavoli di confronto permangano nell’indeterminatezza e le collaborazioni nascano per lo più per realizzare progetti puntuali. Esse non costruiscono, di norma, una visione, un metodo condiviso, un programma nuovo in cui ognuno, restando quello che è, sia a servizio di un obiettivo comune. Si danno così vita a collaborazioni buone dal punto di vista operativo, ma ancora deficitarie dal punto di vista della programmazione di visioni e compiti evolutivi e quindi sostanzialmente inefficaci nel cercare di contrastare l’emergenza povertà.
Per questo forse, più che invocare stati generali in cui troppo spesso si finisce per parlare di welfare fra addetti ai lavori o promuovere la costituzione di osservatori che non di rado elaborano analisi e ricerche che rimangono sulla carta, potrebbe avere un ben maggiore impatto l’implementazione di metodologie di impatto collettivo. In pratica si tratta di coinvolgere un primo nucleo di persone, aventi responsabilità apicali in organizzazioni che hanno un forte interesse nell’affrontare tale problematica e che provengano da tutti i settori (pubblico, privato, profit, non profit, ecc.); quindi costruire assieme a loro una visione comune; individuare un set di indicatori che possano essere raccolti in modo sistematico e che servano a verificare se effettivamente si stanno ottenendo i risultati voluti; predisporre una serie di strategie che coinvolgano un numero crescente di organizzazioni e di persone che, pur mantenendo le proprie specificità, possano dar vita a comportamenti mutualmente rinforzanti; sviluppare una forte e continua attività di comunicazione sia interna ai partecipanti che con la comunità nel suo complesso; dotarsi di una struttura che possa, in modo professionale, coordinare tutte queste attività.
Davanti all’emergenza povertà non basta razionalizzare gli interventi e snellire la burocrazia, bisogna ripensare radicalmente le modalità operative che hanno contraddistinto il nostro agire, riscoprendo una responsabilità verso il risultato che è stata troppo spesso offuscata da un culto per le procedure che, bisogna ammetterlo, non ha dato i risultati sperati. La filantropia istituzionale potrebbe mettere a disposizione quegli strumenti e quelle risorse che, insufficienti in sé, possono però innescare processi in grado di aiutarci a riscoprire la speranza e a ricostruire una comunità umana degna di questo nome. La crisi e la povertà che da essa dipende può trasformarsi in un’occasione per riscoprire alcune verità che una società troppo sicura di sé e dei suoi automatismi ha dimenticato con gravi danni per la dignità di tutti e di ciascuno.
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