Cultura
Che faccio in ufficio? Ridatemi l’Africa
Difficoltà a trovare un lavoro e una vita normale,senso di inutilità, incomprensione dei colleghi,tanta voglia di piantare tutto e ripartire.
“Dopo aver vissuto per due anni in un ospedale in pieno deserto nel nord del Kenya, mi sembrava di essere tornata in un mondo di pazzi, e ancora oggi, dopo sei anni, non mi sono ancora abituata alla vita italiana”. Così si sfoga Mirella, volontaria rientrata del Comitato di collaborazione medica, una ong di Torino: «In Africa il 90% delle cose che si facevano erano veramente indispensabili per vivere, qui in Italia il 90% è invece del tutto superfluo». Mirella è convinta che non dimenticherà mai l?esperienza africana perché, sostiene, «volontari si è per tutta la vita». Come lei sono molte le persone che decidono di dedicare più anni della loro vita a lavorare nei Paesi in via di sviluppo. Ma quali problemi incontrano al loro rientro in Italia? Per cercare di rispondere a queste domande ?Volontari per lo Sviluppo?, la rivista di sei organizzazioni di volontariato internazionale, ha svolto un?inchiesta raccogliendo dati attraverso 173 questionari e intervistando venti ?reduci? del volontariato internazionale. E i risultati sono davvero interessanti. Si scopre, per esempio, che il ?volontario medio? ha un livello d?istruzione piuttosto alto (al 90% laureati o diplomati), arriva per lo più da esperienze di volontariato precedenti (nel 73% dei casi) e spesso non si limita a una sola esperienza ma parte più volte in progetti diversi (quasi il 50%). Una cosa, però, accomuna tutti i ?reduci? del volontariato; la sensazione di aver vissuto un?esperienza determinante per la propria vita, esperienza che lascia il segno anche nelle scelte di vita successive, per esempio quelle familiari.
Il villaggio di Giulia tra i grattacieli
Adriano e Giulia, per esempio, sono stati in Burundi con l?Aspem (Associazione solidarietà Paesi emergenti) di Cantù per tre anni. Hanno quattro figli, un dato quasi eccezionale per un Paese come l?Italia che da qualche anno viaggia a crescita zero. «In Africa», racconta Giulia, «impari una concezione della vita completamente diversa dalla nostra. Per noi avere un figlio significa pensare immediatamente al suo futuro, programmare per almeno vent?anni. In Burundi ti rendi conto di quanto è invece naturale, spontaneo e non programmato avere un figlio».
Mario Meacci, 35 anni, invece, che è stato in Burundi per il Cisv (Comunità impegno servizio volontariato) di Torino ha solo due figli, ma l?idea è la stessa: «Sinceramente non so se la mia voglia di paternità mi è venuta perché ero in Africa o per una pura coincidenza anagrafica Ma due cose mi hanno colpito immediatamente; innanzitutto la differenza di età media tra la nostra società e la loro e, in secondo luogo, vedere bambini che magari hanno fame eppure sono capaci di ridere per un niente e di giocare con nulla». E che i volontari rientrati siano particolarmente ?prolifici? lo dicono anche i questionari, che indicano una media di almeno due figli per coppia. Continua Giulia: «Rientrati in Italia ci è sembrato impossibile ricominciare a vivere come prima», ed è per questo che ha scelto la Cascina Castellazzo, vicino a Milano, una comunità che riunisce 10 nuclei famigliari (tra adulti e bambini 60 persone) di cui oltre due terzi sono volontari rientrati. «Qui le porte delle case sono sempre aperte. Due volte al giorno, per le merende, ci ritroviamo tutti insieme. Sul singolo vince la vita di relazione, il clan, la tribù: in qualche modo è un piccolo spaccato di realtà africana». Insomma, un pezzo d?Africa nel cortile di casa e a due passi dai grattacieli del centro. L?esperienza del volontariato internazionale può continuare anche così. Oppure, gli anni trascorsi in terre lontane possono diventare un formidabile tirocinio professionale, una volta tornati in patria, per trovare lavoro. È andata così per Marco, prima volontario in Ruanda e poi con l?Avsi in Uganda e Sudan. «Mi è stato offerta la possibilità», racconta, «di partire e non me la sono lasciata sfuggire. Mi sono così creato uno sbocco professionale che quest?anno ho perfezionato grazie al primo master in cooperazione allo sviluppo organizzato dall?Università di Padova. Una specializzazione che spero mi permetterà di fare altre esperienze in giro per il mondo».
Vivevamo senza luce, e adesso…
Dunque il ?mal d?Africa? non è solo una nostalgia negativa, ma qualcosa che può cambiare davvero la vita: infatti solo il 36% degli intervistati ha continuato il lavoro precedente alla partenza, altri hanno decisamente cambiato settore scegliendo soprattutto lavori nel sociale (il 68% è impegnato in attività di volontariato o in politica), ma bisogna anche tenere conto del fatto che il 20% degli intervistati prima di partire era o studente o disoccupato. Il cambiamento non è solo lavorativo, lo spiega bene Lele Dorin, 35 anni, in Burundi per il Cisv nello stesso periodo e per lo stesso progetto di Mario. «La sobrietà è la prima lezione che si riceve in Africa», racconta. «Impari subito quanto siano inutili la maggior parte delle cose che ti porti dietro e che ti sembravano invece indispensabili. E non è soltanto il confronto-scontro con la povertà, il senso di colpa. È che proprio viviamo nel superfluo. Nel campo in cui siamo stati io e Mario è mancata la luce per tre mesi. Certo vivere con le candele non era comodo, ma abbiamo scoperto che era possibile e per nulla drammatico . Quando torni in Italia non riesci a consumare e a comportarti come prima».
Aggiunge Mario: «Sono dovuto andare in Africa per apprezzare il ?tempo vuoto?, non il nostro tempo libero da riempire con attività e divertimenti, ma quello davvero ?vuoto?; il tempo per guardare il tramonto, la luna o le stelle. I primi mesi mi sembrava di impazzire quando non avevo niente da fare. Poi ti accorgi quanto sia affascinante quella calma e quel silenzio. Noi viviamo progettando il futuro: per gli africani esiste solo il presente. È chiaro che i nostri ritmi sono diversi, ma quella dimensione del tempo è qualcosa che non posso dimenticare. I veri pazzi siamo noi occidentali».
E proprio un certo disagio nel riadattarsi allo stile di vita europeo è l?elemento che accomuna tutti i volontari intervistati. Se pochi hanno avuto problemi concreti di reinserimento lavorativo (solo il 17%), quasi tutti, però, hanno avuto grossi problemi a livello emotivo e di relazioni sociali. Come per Davide, ingegnere, volontario del Cuamm di Padova, con alle spalle due anni di missione in Uganda. «La difficoltà più grande», racconta Davide, «è stata il riaccettare un tipo di lavoro che ai miei occhi non appariva più completo anche da un punto di vista etico. Sono partito soprattutto per la voglia di conoscere il mondo e per il bisogno di trovare un lavoro che mi appagasse e desse un senso alla mia vita.». E adesso come va?
Com?è difficile con i colleghi
Domanda difficile, ma Davide una risposta ce l?ha. «Dover lavorare per il profitto di qualcun altro, dover accettare delle regole che in qualche modo l?esperienza di volontariato mi avevano portato a contestare: tutto questo non mi stava più bene e trovare il giusto equilibrio tra quello che volevo fare e quello che invece mi volevano far fare è diventato la scommessa della mia vita».O ancora come Mariella dell?Ovci:”Il rientro dal Brasile è stato difficilissimo perché alla gente non interessava un bel nulla dì quello che avevo fatto nel lebbrosario di Marituba. Ma anche dal punto di vista professionale mi sono trovata spiazzata perché i miei colleghi avevano acquisito un?evoluzione tecnica che io mi ero persa del tutto”.
Una cosa è certa: l?80% dei volontari rientrati, alla domanda se ripartirebbero in un altro progetto ha risposto senza esitazione di sì. Sembra proprio vero che volontari si è per tutta la vita. Che, comunque vada, non sarà più la stessa.
(ha collaborato Fabrizio Cellai)
Mirella
Dopo 2 anni in un ospedale nel deserto in Kenia, ora mi sembra di vivere in un
mondo di pazzi
Davide
Quello che vedi ti rende poi difficile accettare un lavoro che sai non servirà a migliorare la vita ai poveri
Nessuno ti regala niente, noi sì
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