Famiglia
Che effetto ritrovare Erika in cucina che ti prepara il caffè.
Uno scrittore immagina di bussare a quel villino, per incontrare il padre e la ragazza. E di scoprire una stranissima normalità.
Dei tragici fatti di quel giorno il villino non reca nessuna traccia. Il padre di Erika ci accoglie sulla porta, tenendo a bada uno spinone piuttosto esuberante. Erika, c?informa, è di là che prepara il caffè. Come ci troviamo nell?ingresso, ci giunge un tintinnare di posate, che sarebbe allegro in qualunque altra casa ma non in questa, e ci assale – tanto vale ammetterlo – un certo terrore.
La voce di Erika è rassicurante: «Venite avanti», fa, «ma niente fotografie». Faccio segno al fotografo di lasciar stare la macchina e metto il naso in cucina. «Non in queste condizioni», precisa lei, senza ridere.
Adesso capisco. Ha appena finito di lavare i piatti e indossa ancora il grembiule. «Erika fa un caffè straordinario», dice il padre, con un entusiasmo che ci pare forzato. Il suo viso reca la traccia di un vecchio ictus. Ci spiega che fare il caffè buono è un?arte che non si può imparare. Puoi usare la stessa caffettiera, le stesse dosi di acqua e caffè, esercitare la stessa pressione, eppure alla fine i risultati sono diversi, e sapete perché?».
«Perché?».
«Perché è tutta una questione di mano».
E siccome la parola mano mi ridà un po? di ansia, preferisco affrettarmi a riderci su.
«Non c?è niente da ridere», precisa il padre, «è proprio così». Erika e suo padre ci fanno accomodare nel soggiorno. Il diploma è vicino, racconta la ragazza, mentre gustiamo insieme il suo eccellente caffè. Per lei, due cucchiaini colmi di zucchero. È un po? ingrassata. Lei, vedendo che il mio sguardo si è posato sui suoi fianchi, spiega che per adesso del problema del calo degli zuccheri non intende occuparsi.
«Ci mancherebbe», commenta papà, sempre pronto.
Si torna a parlare del diploma, delle future scelte universitarie. Più si avvicina il momento di decidere, e più le idee si fanno confuse. È la normalità, a chi non è successo? Il fotografo racconta (non lo sapevo nemmeno io, che lo conosco da vent?anni) di aver studiato filosofia, e di averla abbandonata quando aveva già scritto il primo capitolo della tesi. «È un peccato. Come mai lasciò perdere?», domanda il padre.
«Era una tesi su Sartre. Ma mi accorsi che la sola cosa che m?interessava veramente di Sartre erano le sue fotografie».
«Be?», commenta il padre, «c?era di mezzo, se non sbaglio, un certo Henri Cartier-Bresson?».
Stavolta tocca a lui ridere, e noi gli andiamo dietro. E Omar?
«Ci eravamo lasciati già prima», racconta Erika. Tutti capiamo cosa significa ?prima?, e procediamo oltre.
«Lo vede più?».
«No».
«Sa cosa fa adesso?».
«Mi spiace, ho proprio perso le sue tracce».
L?accenno a Omar e quello alla scelta universitaria mi fanno comprendere quanto sia profonda, accanita, minuziosa la ricerca della normalità, della perfetta normalità, che queste due persone stanno compiendo.
«Adesso», dice Erika, cambiando argomento d?un tratto, «quelle cose lì non le faccio più».
Segue silenzio.
Erika tiene a precisare: «Nessuna di quelle cose. Tutte le cose che voi sapete e tutte quelle che voi non sapete, be?, non importa: nessuna, capite?, nessuna di quelle cose».
Ammiro il suo coraggio e il suo senso di responsabilità. Ormai, lo confesso, temevo che avremmo continuato a parlare di facoltà universitaria, di caffè e magari del giardino, che è tenuto benissimo.
Chiederle se è pentita di quello che ha fatto, se prova rimorso, se soffre di incubi notturni o anche diurni eccetera mi pare una futilità.
Suo padre è sempre sul chi va là, ed è venuto somigliando vagamente a una iena ridens. Mi domando da quanto tempo non dorma più.
C?è qualcosa di terribile nella serietà di questa ragazza. Dopo esserci salutati, usciamo. Il padre tiene lo spinone per il collare, mentre Erika viene a chiudere il cancello.
Il mio fotografo è basso e smilzo, io sono grasso e un po? più alto di lui. Mentre torniamo a Milano, ci confessiamo reciprocamente una cosa. Mai, in vent?anni di lavoro, ci siamo sentiti più simili a Stanlio e Ollio di questa volta. Capito, stupìdi?
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.