Famiglia
Che cosa resta del manicomio? L’internamento prêt-à-porter
Assistiamo così al blando convivere da un lato di strutture monstre e dall’altro all’abitare di persone, anche gravemente disabili, in piccole convivenze assistite. Ed è su questo punto che va riaperta la battaglia. Un dialogo tra Antonio Esposito e Maria Grazia Giannichedda, presidente della Fondazione Franco e Franca Basaglia
Esce in questi giorni per le edizioni Mimesis, un numero monografico della Rivista Cartografie Sociali, promossa dall’Unità di Ricerca sulle Topografie Sociali – URIT dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Il volume collettaneo, curato da Elena Cennini e Antonio Esposito è dedicato alla domanda “Cosa resta del manicomio?”
Proprio sul tema dell’internamento è incentrato il dialogo, ospitato nella rivista e di cui proponiamo un estratto, tra Maria Grazia Giannichedda, protagonista del processo di superamento dei manicomi e presidente della Fondazione Franco e Franca Basaglia, e Antonio Esposito
Giannichedda: Oggi, l’internamento non avviene più in grandi luoghi che concentrano le diverse condizioni delle persone che vanno escluse. Oggi, l’internamento permane come dispositivo che riduce la libertà in nome della protezione, ma questa funzione è svolta in un modo che direi più “veloce”, che dura tempi relativamente brevi (se lo confrontiamo con gli internamenti pluriennali, decennali del passato). Oggi, l’internamento è diventato, per così dire, prêt-à-porter, un dispositivo che si impiega alla bisogna e che si può reiterare quasi all’infinito.
Esposito: Persistono, tuttavia, grandi centri di internamento, destinati a specifiche categorie di persone individuate, categorizzate attraverso quelli che oggi sono assunti come canoni di esclusione e anormalità. Penso, per esempio, ai centri per migranti che, al di là delle sigle e degli acronimi con i quali sono denominati, finiscono per configurarsi, prevalentemente, come grandi contenitori di internamento a fronte di discorsi pubblici e politici sostanziati sulla paura, sul rifiuto, sull’inferiorizzazione di un’Alterità colpevolizzata di tutti i mali sociali ricorrendo alla logica discorsiva del “capro espiatorio”. Cosa intendi, quindi, con internamento prêt-à-porter?
Giannichedda: In genere quelle attuali non costituiscono forme di un internamento ordinato, che ha una proiezione di lungo periodo, fino a durare per sempre. L’internamento, oggi, dura meno nel tempo, non è più concentrato esclusivamente in specifici spazi, si trova in diversi luoghi sociali, in diversi tipi di istituzioni. Le forme di riduzione della libertà, di custodia in nome della cura, persistono ovunque, sono molteplici, di diversa tipologia, hanno strutture normative che, al fondo, possono anche essere analoghe, ma che, tuttavia, si declinano in modo molto diverso l’una dall’altra. Fiorisce così, soprattutto nel mondo anglosassone, e in parte anche in Italia, una sterminata tipologia di piccoli dispositivi di internamento che stanno tra la psichiatria, l’assistenza e il carcere, e che dosano cura e custodia in diverse gradazioni.
Quindi, se prima il manicomio era molto visibile e voleva essere visibile, era un vero e proprio “orizzonte morale” che conteneva in sé, contemporaneamente, promessa e minaccia, oggi, invece, l’internamento non ha bisogno e non vuole essere visto come tale, non è immediatamente percepibile, ma va riconosciuto e disvelato. Il tema della privazione della libertà in nome sia della cura, in senso sanitario, sia della protezione, in senso sociale, della persona e dalla persona, presenta, negli ambiti discorsivi e normativi, confini così sfumati che non sono facili da decodificare. Oggi, allora, è necessario un approfondito lavoro di riconoscimento delle forme di internamento, della loro fenomenologia ed epifenomeni, delle modalità con le quali si declina l’internamento.
Esposito: Quali volti, dunque, assume oggi l’internamento? Si possono individuare forme di internamento generalizzato, come molto spesso pure viene denunciato, o si rischia in questo modo di non riuscire a caratterizzarlo adeguatamente, determinando una confusione non solo terminologica ma anche logica e concettuale?
Giannichedda: L’internamento, oggi, ha una faccia amministrativa, una sanitaria, una esplicitamente sociale-educativa. Tuttavia, dobbiamo prestare grande attenzione al significato delle parole, evitando di farle slittare sul piano metaforico: internamento vuol dire innanzitutto privazione o riduzione della libertà in nome di forme di protezione. Così, di fronte a una comunità terapeutica si deve prestare attenzione, perché lì si potrebbe determinare una forma di internamento. Così pure in un SPDC (servizio psichiatrico di diagnosi e cura) è doveroso chiedersi se potrà verificarsi o meno una forma di internamento, per quanto di breve periodo.
Credo, invece, che all’interno di un Centro di salute mentale non si possa parlare di internamento. Tuttavia, bisogna essere coscienti che il Centro di salute mentale fa parte di un circuito di istituzioni e dispositivi che includono l’internamento, dei quali, quindi, il Centro di salute mentale (e lo stesso vale per l’intero sistema assistenziale) può farsi complice. C’è tutta una gradazione di strutture, tra il protettivo e il sanzionatorio, in cui possiamo individuare degli indicatori per valutare la sussistenza o meno dell’internamento. È quindi importante ribadire la necessità di un lavoro di riconoscimento degli elementi e delle forme di internamento che oggi sono diffusi in tutto quel sistema che sta tra il penale, l’assistenziale e il sanitario. Tra le tre “forme pure”, e quindi il carcere, l’ospedale, le residenze assistenziali, e certamente anche i centri per migranti, sussistono altre istituzioni e servizi che dosano in maniera diversa elementi dell’uno e dell’altro.
Esposito: Le diverse forme di internamento si realizzano su un piano prevalentemente amministrativo. D’altro canto, l’internamento ha sempre vissuto un rapporto di interconnessione con i poteri amministrativi. Nella realtà fattuale, tuttavia, si determinano spazi, spesso in penombra, all’interno dei quali si realizzano prassi di internamento che non hanno un fondamento normativo o che comunque tradiscono lo spirito di Leggi come la 180.
Giannichedda: La sanzione giuridico-amministrativa resta un elemento caratterizzante dell’internamento, eppure, a volte, si possono avere anche “internamenti di fatto” che prescindono da questo dato. Per esempio, la legge psichiatrica italiana non consente alcuna forma di internamento, nella maniera più netta. Il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) non è una forma larvata di internamento, non rappresenta una modalità per dire, con altre parole, “ricovero coatto”. Tuttavia, molto spesso, e ancora di più negli ultimi anni, viene interpretato e realizzato come modalità di internamento. Sono molti gli indicatori che lo testimoniano, innanzitutto le porte chiuse, impedire ogni forma di comunicazione autonoma alle persone ricoverate, il ricorso agli strumenti di contenzione fisica, chimica e ambientale.
Tutti questi sono segni chiari di internamento, ma non hanno una base giuridica che li legittimi: sono forme di internamento di fatto. Così, per esempio, negli istituti per anziani, in cui si trovano cittadini che, come le persone con disturbo mentale, sono nel pieno possesso dei loro diritti, nessuno potrebbe impedire loro di uscire, eppure, di fatto, a queste persone è preclusa l’uscita, è impedita la comunicazione, viene loro organizzata la giornata senza tener conto dei loro reali bisogni e desideri. Tutte queste forme di internamento non hanno alcuna base giuridica, almeno nell’ordinamento italiano, ma questo non impedisce la loro proliferazione.
Esposito: Nel primo periodo pandemico del Covid-19, i dati hanno mostrato, in tutt’Europa e anche in Italia, una correlazione molto forte tra diffusione e mortalità del virus da un lato e, dall’altro, presenza delle strutture residenziali, innanzitutto quelle per anziani, ma anche per persone con disabilità psichica e fisica. Prima ancora del virus, sono stati il permanere del paradigma dell’internamento, il ritrarsi della politica con il sopravanzare di logiche economicistiche e di poteri decisionali non democratici, a determinare la mancata effettività dei diritti alla cura, alla salute e alla dignità della persona. Credi che questo periodo pandemico possa lasciare un insegnamento in questo senso? E quali sono le azioni da mettere in campo per restituire centralità politica al tema della salute mentale?
Giannichedda: Mentre lottavamo per chiudere tutti gli ospedali psichiatrici pubblici e privati, abbiamo assistito al moltiplicarsi di nuovi istituti di internamento per persone anziane e per persone disabili variamente definite (la nozione di disabilità resta tra le più sfuggenti). Nel caso di queste istituzioni, l’internamento si presenta nella sua forma più “classica”, di lungo periodo, è, quasi sempre, vera e propria istituzionalizzazione, soprattutto nel caso delle persone anziane. Certo, mentre nasceva questa costellazione di istituti, si formavano e si diffondevano anche le alternative (l’abitare assistito, i gruppi appartamento etc.), ma, e qui ritorniamo alla atrofia della politica, queste due forme non venivano messe in tensione.
Assistiamo così al blando convivere da un lato di strutture monstre e dall’altro all’abitare di persone, anche gravemente disabili, in piccole convivenze assistite. Credo che qui vada riaperta la battaglia. In Italia, sono ancora funzionanti, resistenti ai tagli e alle ideologie liberiste, modelli di servizio e sistemi locali, sociali e sanitari, che dimostrano, dati e costi alla mano, che un’abitazione piccola per cinque, sei persone funziona meglio che una RSA, anche per un anziano non autosufficiente; che una rete di presidi sanitari territoriali fa funzionare meglio un ospedale e salvaguarda i suoi successi; che il servizio pubblico ha bisogno della comunità di cui fa parte, dei suoi utenti, dei cittadini organizzati e non solo dei professionisti e degli enti che erogano regole e risorse. Certo, resta il problema del profitto, su cui le strutture sono imbattibili, e anche su questo bisognerà ricominciare a ragionare.
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