Non profit
Che cosa può un videogioco? Al via l’Expo di Los Angeles
Si è aperto ieri a Los Angeles il diciannovesimo Electronic Entertainment Exp, l'esposizione mondiale dei videogiochi. È l'occasione per aggiornarsi sulle ultime novità, ma anche per discutere di apprendimento e educazione. Nel frattempo, la Commissione europea ancora si interroga sul rapporto tra violenza e videogames
di Marco Dotti
Il potere cambia ogni cosa, si legge sui cartelloni preparati alcuni mesi fa per il lancio della nuova versione di un famoso videogioco. Forse è davvero così, ma che cosa può cambiare – nella testa e nelle vite dei giocatori, in peggio o in meglio – un videogioco, ancora nessuno lo sa. Sta di fatto che l’industria del videogames sembra non conoscere crisi. Nonostante le paventate riduzioni – che in questo ambito significano: meno software per tutti – a giudicare dagli annunci arrivati in apertura dell’Electronic Entertainment Exp, l’esposizione mondiale che vede riuniti produttori e progettisti, iniziata ieri sera a Los Angeles l’anno che verrà sarà un anno ricco di novità per gli appassionati del settore, e non solo.
Mentre in California si scoprono le ultime novità in temi di giochi, nelle varie conferenze di Microsoft, Sony e via discorrendo, trasmesse in diretta in tutto il mondo (qui il link), in Europa ci si interroga con due grandi temi: la violenza e l’apprendimento. È di poche settimane fa la risposta dell’olandese Neelie Kroes, commissario europeo per l’agenda digitale. La Kroes ha ribadito che la Commissione non è a conoscenza di nessi stringenti e univoci sul rapporto tra sviluppo dell’aggressività e della violenza e uso dei videogiochi.
Rispondendo a un’interrogazione dell’europarlamentare Sergio Paolo Francesco Silvestris (PPE, Forza Italia), la Kroes ha ricordato l’esistenza di un sistema paneuropeo di classificazione dei videogiochi, il PEGI. Attraverso una serie di etichette, si forniscono indicazioni e classificazioni in base all’età e alla tipologia, per orientare i genitori all’acquisto. Va detto, che il PEGI è un sistema basato su autoregolamentazione, non vincolante e, nonostante abbia un’apposita etichetta (ne ha una anche per l’azzardo, le potete vedere qui sotto), tiene conto nel contenuto esplicito in termini di violenza, non degli effetti di induzione indiretta. Il pugno chiuso e rivolto verso l'alto è presente nella maggior parte dei videogiochi. Ma ciò che non si considera è che una grande fetta di giocatori è composta da "ragazzi" tra i 20 e i 49 anni. Il messaggio del PEGI sembra invece rivolgersi istintivamente a un pubblico di genitori che acquistano giochi per bambini, non di genitori-giocatori.
La commissaria Kroes ha poi ricordato che: "la Commissione non è a conoscenza di studi recenti sull'impatto che le dinamiche di gioco possono avere sull'aggressività. Tuttavia, ha finanziato uno studio approfondito, condotto nel 2012, sull'uso di internet e sui comportamenti dei minori europei che favoriscono la dipendenza da internet. Sono stati intervistati 13.284 adolescenti, di età compresa tra i 14 e i 17 anni, provenienti da 7 paesi europei. I risultati dello studio non fanno alcun riferimento all'aggressività correlata a un design mal progettato, ma considerano la reputazione sociale un forte incentivo nei giochi che possono portare all'autodeterminazione. Gli adolescenti utilizzano i giochi per competere e mettere in mostra le loro abilità. Dallo studio risulta che l'1,2 % di tutti gli intervistati mostra segni di dipendenza da internet e che il rischio di presentare un comportamento disfunzionale nei confronti della Rete è doppio per gli adolescenti che giocano ai videogame".
Le parole della commissaria Kroes non fanno però che eludere il cuore del problema. Quando afferma che lo studio commissionato dall'UE "non fa alcun riferimento all'aggressivita correlata a un design mal progettato", non sta forse cadendo in un circolo vizioso? Certi problemi non si vedono, non perché non li si voglia vedere, ma perché non è lì – nella fattispecie: nelle immagini violente – che vanno cercati. Proprio il "design" di gioco, il progetto, la sua difficoltà, i tempi di attesa e risposta, non le scene esplicite di violenza segnalate dai bollini del PEGI, sono oggi al centro della critica.
La controversia sulla violenza dei videogiochi è e sarà senza fine, se non si comprende che certi parametri non funzionano, se applicati a un medium complesso come il videogame. Le scene di violenza occupano una parte importante dell'industria del videogame, proprio quell'industria che oggi fa mostra di se all'Expo di Los Angeles. Già nel 2003, in uno studio su Media violence and children, Douglas A. Gentile osservava che l'89% dei videogiochi in commercio conteneva scene classificabili come violente. Ma che cosa significa "violenza" nel contesto di un videogioco? Anche il pionieristico Pacman, che divorava fantasmi, era violento? Applicare criteri e codici tarati sull'immagine televisiva può portare fuori strada in questo campo.
@oilforbook
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