Volontariato

Che ci fa un pavone in manicomio

Aversa, Italia: viaggio in uno dei sei ospedali psichiatrici giudiziari rimasti in attività.

di Barbara Fabiani

Prima di entrare in visita in questo posto dovrebbero avvisarti di lasciare, insieme al cellulare, nello scomparto chiuso a chiave, anche il fardello delle tue opinioni, in modo particolare quelle create con l’esperienza personale. Chi viene internato all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, uno dei sei del territorio italiano, deve aver commesso un reato ed essere stato giudicato socialmente pericoloso da un tribunale, dopo perizia psichiatrica. Qui al momento sono trattenute 180 persone colpevoli di azioni violente della gravità più diversa, dall’insulto al crimine sanguinario. In questa situazione dantesca il nostro Virgilio si chiama Adolfo Ferraro, cinquant’anni compiuti in questi giorni, direttore dell’opg dal 1997 e artefice di quello che egli stesso definisce un processo per la “ricerca di un’identità” di questa struttura dilaniata tra l’essere carcere e luogo di cura. «Con l’età ho smesso di credere all’abbattimento dei muri », dice questo ex sessantottino napoletano, «ma mi resta molta fiducia nelle “finestre” e nelle “porte” che si possono sempre aprire». In quest’istituto Ferraro cominciò a lavorare nel 1980. «Non so neanch’io perché feci il concorso; a quei tempi volevo occuparmi di medicina del lavoro, salvare gli operai dalle malattie delle fabbriche. Nel frattempo sperimentavo certe mie idee sul teatro insieme ad altri amici psichiatri», racconta di sé con autoironia e un residuo di istrionismo. «Ma quando arrivai qui, cambiai programma». La prima volta le porte si aprirono a metà degli anni ’80 quando, con forti resistenze da parte dell’allora direttore, vennero accompagnati in gita degli internati che non uscivano dall’istituto da dieci anni. «Non era solo svago», precisa Ferraro, «ma anche diagnosi. Se rientrando qualcuno diceva “che bella cosa dotto’, organizziamolo più spesso”, era segno che ormai la coercizione era diventata una dimensione quasi casalinga, mentre quelli che tornando dentro si disperavano dimostravano, paradossalmente, di essere in un certo senso più sani». Il direttore racconta con il viso curvo su una fila di documenti da firmare: «Senta qui», dice prendendo un foglio tra le dita. «“Il sottoscritto chiede al signor direttore di poter telefonare sabato ai propri parenti per chiederci perché non mi vengono a trovare. Siccome non ho i soldi per la scheda telefonica, si prega di avere un prestito”. Quest’altra invece è una richiesta per fare la spesa presso lo spaccio interno». Intere mattinate a firmare carte come queste. «Qui vige il regolamento penitenziario tale e quale a quello delle carceri ordinarie. Ogni minima richiesta va messa per iscritto e per l’amministrazione giudiziaria io sono prima di tutto un direttore di carcere che deve controllare ogni passaggio burocratico». Rallentato da questi vincoli, Ferraro è comunque riuscito a imporre un cambiamento di stile nella gestione dell’opg. In meno di cinque anni alle terapie farmacologiche si sono aggiunti la musicoterapia, i laboratori di ceramica, l’espressione con i colori, l’attività teatrale, un sito internet, un giornalino bimestrale scritto dagli internati e anche l’apertura di un museo storico dell’opg messo insieme con i reperti raccolti negli uffici e nelle cantine che, seppure piccolo, è comunque l’unico museo di Aversa e vengono a visitarlo le classi delle scuole medie superiori. Ma il fiore all’occhiello di Ferraro, si capisce dall’entusiasmo con cui ne parla, è l’allestimento di una vasta area verde con uno stagno al centro, dove oggi sono accuditi 500 tra oche, germani, cigni, pavoni, capre, pecore, senza recinti tranne quelli per proteggere i pulcini dai gatti. «Nessuna iniziativa è puro intrattenimento ma deve avere una funzione terapeutica», afferma lo psichiatra. «Molti dei pazienti erano agricoltori, pescatori, gente di paese abituata al contatto con la natura. L’area verde riproduce un ambiente conosciuto, allevia le tensioni; si può dire che è una specie di pet therapy». Scendendo per le scale per raggiungere il cortile, la bellezza delle balaustre di marmo e dei lampadari in ferro battuto riesce a beffare lo sguardo per poco; più evidenti sono le incrostazioni dell’intonaco del soffitto, le estese sbucciature delle pareti. Le mura esterne dell’edificio principale fanno anche da muro di isolamento, il complesso era un convento francescano prima di diventare una “casa di pena per invalidi” nella seconda metà dell’800; le celle dei frati erano nelle dependance, diventate poi i reparti per gli internati. Dirigendosi verso una delle palazzine, Ferraro spiega che d’estate le attività trattamentali – molte affidate a cooperative esterne – si interrompono, il personale si riduce per le ferie ma aumentano i ricoverati, inviati sia dalle carceri ordinarie che dagli ospedali psichiatrici con la richiesta di tenerli in osservazione. Forse è vero che il caldo aggrava le nevrosi, forse è anche vero che d’estate tutte le istituzioni vanno sottorganico, ma i carcerati e i pazienti più difficili restano. Arrivati al “reparto pilota” troviamo la porta aperta. L’interno sembra una vecchia scuola elementare. «Questo reparto è gestito esclusivamente dai ricoverati e dal personale sanitario senza la presenza della polizia carceraria», dice il direttore esponendo un’altra delle sue rivoluzioni. «La mancanza della custodia non ha procurato i danni che qualcuno si aspettava. Da quando è stato avviato, in questo reparto non ci sono mai state coercizioni né atti di aggressività». Si tratta di malati non gravi che spesso sono dimessi da qui e affidati ai servizi territoriali. «Il 60% dei ricoverati in questo opg potrebbe essere seguito dai dipartimenti di salute mentale», afferma Ferraro. «Sono persone condannate per lesioni non gravi, atti osceni in luogo pubblico, maltrattamenti familiari». Le famiglie, lasciate sole ad affrontare la malattia, arrivano a denunciare i parenti aggressivi. «Capisco la loro esasperazione, ma non credo che un ospedale psichiatrico giudiziario sia la soluzione. Spesso noi raccogliamo quello che i servizi territoriali non riescono a risolvere. Un affollamento che non fa bene ai pazienti e a noi impedisce di lavorare seriamente sui malati gravi». Il direttore conosce bene i problemi degli internati. Glieli ricordano ogni due mesi dalle pagine della Storia di Nabuc, il giornalino dell’istituto: vitto scadente, la paura della contenzione – tanto che pochi mesi fa tra i pazienti è passata una petizione che chiedeva di sostituire i letti con le cinghie con le camere imbottite – , la sporcizia nei reparti. Tutti problemi veri, con le loro ragioni: per tre pasti al giorno il ministero sborsa 3mila lire a paziente, il regolamento penitenziario prevede che le celle siano pulite dai carcerati e non fa distinzione per i malati mentali. «Di letti di contenzione nel 1997 ce n’erano venti», ricorda Ferraro. «Oggi sono soltanto tre». E tutte le innovazioni trattamentali, solo illusioni che grattano la superficie? Ferraro si affanna a far capire che invece sono meccanismi di apertura in una struttura da sempre monolitica. L’autoreferenzialità ha mantenuto le cose statiche per oltre un secolo e mezzo, ora i contatti con le cooperative, le scuole, con il Wwf e Legambiente, i volontari che entrano nell’opg, persino i giornalisti, servono a innescare una trasformazione. Di tutto questo si parla spostandosi da una stanza all’altra del primo piano della palazzina dove si svolgono le attività trattamentali. Una vetrina con i lavori in ceramica e cucito, la redazione del giornale, dalla sala della musicoterapia arriva il suono di una batteria: è una guardia carceraria che ne approfitta per «esprimersi anche lui», come dice Ferraro. La stanza più colorata e vitale è quella dove i pazienti seguono le lezioni di scuola elementare e media, su un cartellone c’è un fitto scarabocchio blu con scritto al centro “la scoperta dell’eterna circolarità tra pensiero e azione”. L’opg è composto da sette reparti, compreso quello degli osservandi (i detenuti comuni inviati sotto osservazione); nel cortile attraverso le sbarre di una finestra un internato rivolge qualche apprezzamento all’ospite. Ferraro fa le presentazioni. La mano che sporge attraverso le sbarre è rilassata e flaccida, in contrasto con la parlantina ansiosa. Si presenta come professore di storia delle religioni. «Ha ucciso due donne», racconta lo psichiatra mentre ci allontaniamo, «poi le ha fatte a pezzi e chiuse in una valigia», aggiunge, gustandosi lo sgomento che paralizza chi lo ascolta. È probabile che un po’ del sadismo passato per queste mura sia finito nel sense of humor del direttore. In totale, quelli veramente pericolosi – «quelli da non far uscire», come dice anche Ferraro – sono una trentina. «Io non credo di poter guarire psicopatie così gravi», ammette lo psichiatra, «ma sono certo di poterle curare, se questa struttura risolvesse le sue ambiguità». Siamo in un carcere o in un luogo di cura? Nell’opg il direttore e il suo vice sono gli unici due psichiatri assunti, gli altri cinque lavorano a parcella per una sessantina d’ore al mese. La terapia psicoanalitica individuale è un’utopia in queste condizioni: «Così è impossibile studiare le patologie più violente, capirne le origini, fornire dei profili che aiutino gli investigatori. Possiamo meramente contenere l’incontenibile, anche per decine d’anni, ma non è per questo che sono diventato medico». In uno dei corridoi dei reparti un graffito avverte: “In questo manicomio due persone su una sono schizzofreniche”: probabilmente il conto include anche il sistema. www.opgaversa.it


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