Non profit
Che ci fa l’Europa a Port-au-Prince
«La priorità dell'intervento è stata quella di mettere il governo dell'isola in condizioni di agire. Gli Usa? Nella prima fase sono stati preziosi»
Ad Haiti la fase di emergenza sta già facendo i conti con i piani di ricostruzione. Per l’Unione Europea si tratta di una priorità assoluta, al punto da farne un chiodo fisso nella sua strategia di aiuto del Paese caraibico martoriato dal terremoto che un mese fa ha ucciso 200mila persone lasciandone altre 300mila in mezzo alla strada. Dopo il “caso Ashton” (l’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza UE accusata, all’indomani della catastrofe, di aver passato un week end a Londra anziché precipitarsi a Port-au-Prince), Bruxelles vuole tornare protagonista annunciando al mondo, il 6 febbraio scorso, che l’UE verserà 400 milioni di euro «per appoggiare il governo haitiano affinché possa riprendere in mano il Paese». Una strategia che Stefano Manservisi, direttore generale della Direzione Sviluppo presso la Commissione europea, ritiene «fondamentale» per rilanciare un Paese che conosce bene per averci effettuato cinque visite ufficiali, l’ultima delle quali il 21-22 gennaio scorso.
Vita: Sugli aiuti la gente sta perdendo pazienza. Il governo haitiano è accusato di essere incapace di affrontare sia la crisi umanitaria che la ricostruzione…
Stefano Manservisi: Senza l’amministrazione haitiana non si va da nessuna parte. Non a caso, le prime centinaia di milioni di euro erogati dall’Unione Europea sono stati spesi per l’emergenza non umanitaria, ovvero per ristabiulire le capacità di governo. La prima missione UE guidata dalla Commissione europea ha visto in loco un riconoscimento unanime da parte degli attori internazionali associati a questa missione – ovvero Banca Mondiale, Banco Interamericano, Stati Uniti e Nazioni Unite. La ricostruzione e la ripianificazione di un Paese come questo non è fatto dai donatori, ma dal governo.
Vita: In che modo?
Manservisi: Costruendo ad esempio un centro amministrativo dotato di computer, telefoni e altri servizi indispensabili per consentire a ministri e funzionari di base di poter rimanere collegati con il resto del Paese e di pianificare la ricostruzione e la gestione degli sfollati.
Vita: Guido Bertolaso ha criticato l’intervento americano lasciando intendere che Washington confonde l’intervento umanitario con quello militare. Come si inserisce la macchina umanitaria europea in questo contesto?
Manservisi: La nostra azione è stato largamente definita dalla capacità militare degli Stati Uniti e del Canada di arrivare ad Haiti in pochissime ore, di riaprire un aeroporto che era chiuso, di creare quelle condizioni di sicurezza che non esistono dopo una catastrofe di queste dimensioni e di avviare le prime operazioni di soccorso. Non voglio entrare in polemiche: posso solo dire che con le Nazioni Unite decapitate dal terremoto, l’intervento degli americani e dei canadesi nelle prime ore è stato fondamentale, se non altro per riconnettere Port-au-Prince e Haiti con il resto del mondo. Ovviamente, il fatto che sia stato dispiegato un dispositivo militare ha reso dopo alcuni giorni la presenza dei marines un po’ ingombrante. Vedere degli hammer girare per le strade di Port-au-Prince lascia un po’ perplessi rispetto alla necessità di un coordinamento umanitario sotto l’egida delle Nazioni Unite. Da questo punto di vista, anche se gli Stati Uniti sono ancora al cuore della macchina umanitaria, la situazione è nettamente migliorata.
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