Cultura

Chatbot: non bastano i robot per sconfiggere la burocrazia

Mentre nel mondo dell'e-commerce decrescono le aspettative sulle chatbot, programmi addestrati per intrattenere conversazioni con gli utenti, le istituzioni puntano su progetti pilota che, a parole, dovrebbero "sburocratizzare" il rapporto fra cittadini e istituzioni, offrendo risposte e informazioni in tempo reale. Il risultato? Nessuna risposta. E la frustrazione aumenta

di Marco Dotti

Una contrazione del termine robot, usata in informatica e coniata alla fine degli anni Ottanta, sta tornando in auge. Si tratta della parola bot. abbreviazione di knowbot, a che a sua volta abbrevia l'espressione knowledge robot.

Nel suo Dizionario dei new media, Stefania Garassini ricorda che l'espressione knowbot venne coniata da Vint Cerf e Bob Kahn, «per definire un agente software che in Rete è in grado di sostituirsi all'uomo per determinate mansioni, seguento una serie di regole imposte dal suo programmatore». Detto in altri termini, il bot è un codice di programmazione che permette di automatizzare una serie di messaggi che dialogano con un essere umano. Con l'avvento del web, i bot hanno fatto il loro ingresso sui diti, con applicazioni dedicate al commercio elettronico: le cosiddette chatterbot (altra abbreviazione: chatbot), programmi addestrsti per intrattenere conversazioni (chat) con gli utenti, in tempo reale e usate da subito nel commercio elettronico.

Un bot non è una dunque macchina, ma un programma. È un codice di programmazione che, simulando l’esistenza di una persona umana, accede a una serie di informazioni e interagisce in un ambiente digitale con uno o più umani, comportandosi a sua volta come se fosse una persona umana. In quel “come se” si agitano molte delle questioni che, alternativamente, suscitano paura o entusiasmo quando affrontiamo i temi dell’Intelligenza Artificiale o del suo innesto in protesi biomeccaniche (robot).

Paura e entusiasmo, ma anche frustrazione. Vediamo perché.

Il flop dei bot

Produzione di messaggi automatizzati “malevoli” (le cosiddette fake news), giochi in automatico, interazioni fra utente “reale” e call center virtuale: i bot sono entrati prepotentemente nella nostra vita. Soprattutto attraverso le cosiddette chatbot, assistenti virtuali in forma scritta che, nel solco della cosiddetta Intelligenza Artificiale, dovrebbero sostituire i normali centri di assistenza agli utenti e, in caso di istituzioni, ai cittadini. .

Il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali (ma è solo un esempio fra tanti, Lo stesso ha fatto il MEF, con una chatbot) ha sperimentato una chatbot su messenger, il servizio di messaggistica istantanea di Facebook. Attivo «in tempo reale, 24 ore su 24, alle domande degli utenti su notizie e indicazioni pratiche», avvisa un comunicato stampa del Ministero datato 24 maggio 2017.


Con entusiasmo il Ministro Maurizio Martina, annunciando la chatbot istituzionale, ribadiva: «L'importanza di una comunicazione immediata e diretta delle attività del Ministero per il mondo agricolo e agroalimentarerende imprescindibile l'utilizzo di nuovi strumenti e piattaforme. (…) Sfruttiamo allora le potenzialità dei social network per promuovere e tutelare le nostre eccellenze e per rafforzare il dialogo con i cittadini, liberandoci dai lacci della burocrazia».

A un anno di distanza, si può parlare di bot-flop? Forse sì, se anche gli altri "utenti" hanno ottenuto le (non) risposte che abbiamo ottenuto noi. Ma il problema è alla radice e le istituzioni, preda di senili tecnoentusiasmi, non se ne accorgono: la spersonalizzazione non sburocratizza. Tutt'altro. E se il mezzo, come rilevano non pochi utenti, non è adeguato al messaggio la frustrazione non può che aumentare.

La frustrazione passa dalla chatbot

Le buone intenzioni non bastano, e talvolta sono persino controproducenti. Se ne sono accorti anche nella Silicon Valley dove, nel giro di soli 2 anni (un'eternità, per chi si occupa di tecnologia), l'entusiasmo per portava Casey Newton a scrivere su The Verge «i bots sono tra noi e stanno imparando — nel 2016 potrebbero mangiarsi il web» non si è forse del tutto raffreddato, ma di certo si è orientato a più miti consigli. La crescita dei servizi di instant messaging, da Whatsapp a Messenger, lasciava presagire campo aperto all'utilizzo dei bot.

Ma se quantitativamente le chatbot possono processare un numero incredibile di dati e informazioni, sul piano qualitativo le cose stanno diversamente e gli utenti continuano a preferire un operatore di servizi umano.

Al di là dei comunicati stampa che, di tanto in tanto, vengono rilanciati dai giornali, nessuna macchina e nessun programma è ancora riuscito a superare il cosiddetto test di Turing, che a tutt’oggi resta il fondamento cognitivo elementare su cui si gioca gran parte del programma di ricerca che genericamente definiamo Intelligenza Artificiale (AI).

Nel 1950, sulle pagine di Mind, il matematico Alan Turing pubblicò un articolo titolato “Computing machinery and intelligence” proponendo un criterio empirico di discernimento basato su un gioco, il cosiddetto gioco delle imitazioni (imitation game): un soggetto umano, in una stanza, comunica con un interlocutore che non può vedere, di cui non conosce identità o natura (uomo o computer), posto in un’altra stanza.

Se l’intervistatore non riesce a distinguere con chi sta interagendo, con un altro essere umano o con un computer, e il computer riesce a “imitare” l’umano, allora il comportamento di quel computer può dirsi cognitivamente intelligente, ovvero in grado di produrre quei concatenamenti di idee che chiamiamo pensiero. Generalmente questo avviene quando il livello diventa colloquiale, ovvero umano. E in maniera controintuitiva richiede una complessità di riflessione che le macchine, a oggi, non sono in grado né di produrre, né di replicare.

Uscendo dai test logici o formali ed entrando nella vita quotidiana il risultato non cambia: la noia. Arun Uday, su TechCrunch ne ha spiegato i motivi: «se il livello di conversazione di un bot è elevato, gli umani iniziano subito a esprimersi in maniera troppo colloquiale e a quel punto, il bot fallisce nel suo compito, creando frustrazione».

Le uniche chatbot che, a oggi, sembrano "funzionare" sono quelle dell'azzardo online: capaci di compensare la frustrazione con ricompense e punti. Ma questa, come sanno i nostri lettori, è tutta un'altra storia.

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