Non profit

Cessate il fuoco

di Sergio Segio

«Patria, si fa chiamare lo Stato ogniqualvolta si accinge a compiere assassini di massa».

(Friedrich Dürrenmatt)

Il conflitto armato in Ucraina, innescato da Vladimir Putin e favorito dalla politica di espansione a Est della NATO e degli Stati Uniti, è una delle tante guerre del nuovo millennio. Ingiustificata e criminale, come ogni altra. Non esistono guerre giuste o eserciti innocenti. Quali che ne siano le motivazioni o i pretesti, infatti, la guerra non è altro che un sistema organizzato di omicidio e rapina su vasta scala, allorché diventa operativa, e un’immensa catena di profitti e di poteri economici ipocritamente ritenuti da ogni paese, o quasi, indispensabili alla propria difesa e sicurezza, allorché viene preparata o ne vengono allestite le premesse e possibilità.

Tutta la storia del Novecento, quantomeno, ruota attorno al complesso industrial-militare, e finanziario, che governa questi processi e poteri in cui la politica è resa vassalla, come di nuovo ben si vede in questi giorni.

La guerra in Ucraina, tuttavia, è la prima ad aver innescato inediti e assai gravi precedenti. In pochi giorni governi nazionali e sovranazionali hanno preso decisioni inaudite, nella quasi totale assenza di opposizioni sociali e parlamentari, come quella di inviare ingenti quantitativi di armamenti al governo di Kiev, qualificandole come contributo alla pace. Come si sa, e nuovamente si vede, la prima vittima di ogni guerra è la verità, spodestata dalla propaganda.

Contro tutte le guerre

Domani a Roma si manifesta per la pace e contro la guerra. Contro tutte le guerre, perché oltre a quella scatenata da Putin ve ne sono tante altre nascoste e dimenticate, in corso da anni con vittime civili, distruzioni e il consueto “indotto” di violazione dei diritti umani, povertà e carestia, flussi migratori, devastazione ambientale.

Si veda qui l’eloquente mappa di Statista, basata sui dati dell’Armed Conflict Location & Event Data Project, secondo cui solo nell’ultimo anno (dal 25 febbraio 2021 al 25 febbraio 2022), le vittime sono state 147.828.

A parte l’Ucraina, le zone martoriate e i paesi aggrediti non sono in Europa, e meno che meno negli Stati Uniti, e forse questo contribuisce a fare la differenza nell’attenzione e nelle reazioni. Magari sono davanti alla porta di casa, ma comunque a distanza di sicurezza, come ad esempio in quella Libia dove ieri sono stati addirittura rapiti tre ministri e dove l’Occidente, Italia compresa, con la NATO a partire dal 2011, a suon di bombardamenti, ha prodotto la perdurante destabilizzazione e la “balcanizzazione”, seguendo in effetti il modello già sperimentato con tragico successo nella ex Jugoslavia.

Alla manifestazione nazionale di Roma ha scelto di non partecipare un’organizzazione importante come il sindacato CISL, che ha accusato gli organizzatori di «equidistanza tra le parti in guerra». Forse non rendendosi conto che una manifestazione per la pace e contro la guerra è… contro la guerra, vale a dire è di rifiuto di quella logica e sistema di risoluzione delle controversie internazionali, proprio come recita la nostra Costituzione. Non è un entrare nel merito, è, a priori, rifiutare un metodo. Diversamente, andava convocata una manifestazione non per la pace ma contro la Russia, e magari andava promosso l’arruolamento di volontari internazionali che si rechino a combattere contro di essa. È, in effetti, questa una delle richieste giunte dal presidente ucraino, indubbiamente pericolosa oltre che impraticabile in base al diritto internazionale.

Difendere un paese aggredito è possibile proponendo, perseguendo e imponendo la pace, non dilatando la guerra. Al di là dell’emergenza, che andrebbe prevenuta e scongiurata, la pace si promuove educando alla pace, rinunciando agli eserciti (come nel suo piccolo mostra il Costa Rica, che dal 1948 vive e prospera senza forze armate e senza guerre), chiudendo e riconvertendo le industrie belliche. Diversamente, l’unico ordine mondiale possibile diventa quello della giungla, basato sulla legge del più forte, del più ricco e del più armato. Il che somiglia molto alla realtà odierna.

Il diritto internazionale e l’irrinunciabilità della diplomazia

La manifestazione di Roma si appella a un «cessate il fuoco». Sta dalla parte delle vittime, di tutte le vittime, proprio come ha fatto la Corte Penale Internazionale aprendo un’indagine per crimini di guerra, secondo le norme del diritto internazionale umanitario. Indagine che non è a priori “contro” qualcuno ma è per l’accertamento dei fatti e degli eventuali crimini commessi sul territorio dell’Ucraina da parte di chiunque, peraltro a partire non da ieri ma dal 21 novembre 2013.

Se la Corte internazionale ci ricorda dunque che le sentenze si emettono alla fine di un’indagine, e non a furor di popolo, di social media e neppure di analisti geopolitici, la manifestazione di Roma ci indica un altro metodo e un altro terreno necessari: quelli della mediazione e della diplomazia a oltranza, necessariamente alternativi a quello delle armi.

Discorso che evidentemente non piace, oltre che alla CISL, a diversi governi e parlamenti. L’Unione Europea nel suo complesso e singolarmente molti dei maggiori paesi che la compongono hanno in questi giorni deciso e finanziato l’invio di armi in Ucraina e di truppe nei paesi confinanti, assieme alla NATO e agli Stati Uniti. I quali, per una volta e in diretta conseguenza dello smacco afghano, hanno evidentemente ritenuto meno costoso e rischioso fare la guerra per procura, specie a ridosso delle elezioni di midterm.

Inviare armi (o eserciti, regolari, mercenari o “volontari”) in un teatro di guerra è, obiettivamente, un atto di guerra, ovvero una scelta che punta e vorrebbe contribuire a una vittoria militare e non a una soluzione politica e diplomatica. Una misura peraltro ipocrita, poiché a quel punto sarebbe coerente intervenire direttamente con i propri eserciti a sostegno dell’Ucraina. Scelta che, ha da subito detto Biden, significherebbe aprire la Terza guerra mondiale.

In sostanza, si lancia il sasso (consentendo in questo modo nuovi e lauti profitti alle industrie belliche nazionali), si rifiutano le conseguenze e per certo si determina una rischiosa escalation militare.

Articolo 11

Tra i paesi che stanno contribuendo al rinfocolamento dell’incendio vi è, al solito, anche l’Italia, nel tempo della pandemia ormai disciplinata nel non disturbare il manovratore e abituata a vedere ufficiali in divisa, nastrini e stellette gestire l’emergenza sanitaria o propagandare nelle scuole, persino elementari, la bellezza e importanza del mestiere delle armi.

Al pari di quelli dell’Unione, i nostri governo e parlamento, con la eccezione di Sinistra Italiana e di ManifestA, hanno così stracciato un’ennesima volta l’inequivocabile articolo 11 della Costituzione repubblicana («L’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»), non per caso inserito tra i Principi fondamentali della Carta, e il disposto della legge 185/90 che disciplina l’esportazione e importazione di armamenti.

Nel frattempo, con sorprendente rapidità e noncuranza sono stati infranti, uno dopo l’altro, i tabù, le Carte costituzionali e i solenni impegni ereditati dopo il grande mattatoio della Seconda guerra mondiale. Di nuovo senza quasi opposizione e reazioni critiche, o almeno adeguatamente preoccupate, nei parlamenti, nei media, nella società. Dal riarmo della Germania, alla rinuncia della neutralità della Finlandia, alla incauta e ripetuta evocazione della Terza guerra mondiale da parte di Biden, alla minaccia nucleare apertamente agitata da Putin e dal suo ministro degli Esteri.

Tutto ciò peserà sul futuro, assieme all’inevitabile catena di odi e rancori, che la guerra, comunque vada a finire, lascerà in eredità. Perché è questo il tremendo e immondo potere che ogni guerra ha: di creare i presupposti per la sua replicazione, a distanza di anni o di secoli.

A meno che non la si butti davvero, una volta per tutte e per sempre, fuori dalla Storia.

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