Commemorare Cesare Segre , che ha lasciato un segno davvero importante nella cultura italiana, è cosa buona e giusta. Attenzione però a non lasciarsi trasportare dall’enfasi retorica, perché lui stesso sarebbe il primo a non apprezzare. Vero è che, a un certo momento della sua vita, ha deciso di porre nero su bianco le sue memorie. Ma il sottotitolo che aveva scelto per l’occasione – Una specie di autobiografia – la diceva lunga sul distacco ironico, e autoironico, con cui era solito rapportarsi alle umane vicende. Il titolo di quella “specie di autobiografia” era Per curiosità. Trattandosi di Segre, verrebbe da pensare che per uno come lui la letteratura non avesse segreti. Ma proprio qui sta l’errore: essendo un curioso di natura, era portato a credere che i classici della narrativa di tutti i tempi – da lui letti, riletti e analizzati in profondità – conservassero sempre qualcosa di oscuro, di magico, di misterioso. Le opere di Dante, Petrarca, Ariosto, Montale: ai suoi occhi, enigmi eternamente irrisolvibili; nel suo lavoro di critico sarebbe riuscito a svelarli ma solo in parte, lasciando alle generazioni future il compito di perlustrare ancora dentro quelle miniere d’oro.
Certamente ha dedicato tutta la sua esistenza ai libri, ma pensare che questo implichi un modo di vivere monotono, monocorde, è un altro di quegli errori di valutazione che vanno rapidamente smentiti. Segre ha vissuto una vita avventurosa, altroché se è stata avventurosa. Le emozioni forte non sono mancate, a partire dai primi anni. L’origine ebraica, come è facilmente intuibile, gli dette più di una grana nell’Italia fascista. Scriveva: «Con il Duce ormai ostaggio del governo nazista, la relativa moderazione delle leggi razziali del 1938 non poteva continuare». In quegli anni, in cui riuscì a scampare alla deportazione, fondamentale fu la frequentazione con don Biagio Fissore: «Avevo fatto amicizia con questo prete assolutamente privo di unzione, e traboccante di bontà (direi santità, se potessi giudicare io). Appassionato di romanzi francesi – adorava Mauriac – ebbe la delicatezza di non parlare mai con me di religione. La sua fede in Dio la mostrava con le opere, mai con le parole». La paura in quei giorni fu tanta, a distanza di molti decenni la cicatrice rimaneva ancora aperta: «Mi rimase e mi rimane l’impressione di essere stato anch’io rinchiuso in un vagone piombato, di essere sceso alla pensilina del Lager fra urla e spintoni, di aver attraversato il fatidico cancello, di essere stato selezionato per il gas e di essermi avviato rassegnatamente verso la morte». Quando Giovanni Paolo II, il 13 aprile 1986, abbracciò il rabbino Toaff, il laico Segre riconobbe l’importanza storica di quel gesto: «Mi son venute le lacrime agli occhi. Grazie, Santità: dev’essere stato per Lei uno sforzo eroico quello di strapparsi a duemila anni di avversione e di condanne della Chiesa verso gli ebrei».
Non deve stupire che provasse un debole particolare per l’Orlando furioso –di cui ha curato una magistrale edizione critica: è evidente, da quel che abbiamo scritto finora, che l’uomo amava la vita a 360 gradi; lo attirava il movimento, il dinamismo, il susseguirsi frenetico e instancabile degli eventi. Ecco dunque spiegata l’affinità elettiva con le “esperienze ariostesche”. Le donne, i cavvalier, l’arme, gli amori: un incipit di tal fatta ben si attagliava alle corde dello studioso piemontese – di cui pure, va detto, non risulta tra i dati biografici un’attitudine poligama, né tantomeno una passione per le artiglierie.
Ora, se qualcuno avesse ancora dei dubbi riguardo al fatto che il serio e scrupoloso professore coltivasse, dentro di sé, anche il gusto per il ludico, per lo scherzo giocoso, abbiamo davanti agli occhi una prova schiacciante: Dieci prove di fantasia, scritto quando ormai aveva superato gli ottant’anni, è un divertissement attraverso cui, per la prima volta, è passato dall’altro lato del guado, proponendosi in veste di narratore. In quell’occasione, rilesse a modo suo la storia della letteratura, dando voce ad alcuni personaggi “minori”, meno noti al vasto pubblico. Tra questi: Gano della Chanson de Roland che smentiva la fama di uomo infido; Cunizza da Romano che definiva Dante un “mattacchione” per averla collocata in Paradiso; Monsieur Bovary, col dente avvelenato con Flaubert perché lo ha dipinto come uomo indifferente, poco attento alle esigenze di Emma.
Ma tutto il percorso umano e professionale di Segre è stato contrassegnato dalla creatività. Basti citare, a mo’ di esempio, La pelle di San Bartolomeo: l’onnivoro studioso scrivendo quel saggio si affacciò – come sempre, con risultati eccellenti – nel mondo delle arti figurative (il riferimento del titolo è, come noto, al santo che mostra la propria pelle nel Giudizio Universale michelangiolesco).
Più passavano gli anni, più il professore sentiva dentro di sé il bisogno di essere allievo. Un po’ come nel celebre aforisma di Picasso – di cui sicuramente, spinto dalla consueta curiosità, aveva avuto modo di approfondire vita, morte e miracoli: “Ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino”.
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