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Cesare Moreno: «Ospedale distrutto? È infantilismo, non criminalità»
Ugo Russo, 15 anni. Ucciso da un carabiniere in borghese durante una tentata rapina nel quartiere di Santa Lucia a Napoli. Gli amici hanno poi distrutto il pronto soccorso. «Questo ragazzo», dice Cesare Moreno, presidente dell’associazione Maestri di Strada, «viveva in un ghetto. E i giovani che vivono così hanno acquisito questo tipo di mentalità: se ne stanno chiusi e sono esclusi dal resto. E sono molto arrabbiati e nessuno si occupa di loro fino a quando non ci scappa il morto. Poi tutto torna nel silenzio»
di Anna Spena
Ugo Russo, 15 anni. Ucciso da un carabiniere in borghese durante una tentata rapina nel quartiere di Santa Lucia a Napoli. Il ragazzo, colpito da tre proiettili è morto in ospedale, il Vecchio Pellegrini. Gli amici hanno poi distrutto il pronto soccorso, sparato colpi di pistola all’esterno di una caserma di Napoli. Ma lasciamo da parte la pura cronaca. «Questo ragazzo», dice Cesare Moreno, presidente dell’associazione Maestri di Strada, «viveva dentro il centro di Napoli. Ma il centro di Napoli – i quartieri – sono una periferia in mezzo alla città. Zona emarginata, livello altissimo di disoccupazione, piccoli crimini. Qui nascono le “Baby gang” e la situazione non cambia mai, è la stessa da anni. Sono giovani senza speranza».
Ma la scuola?
E chi va a scuola? Saranno almeno settemila i ragazzi che l’hanno abbandonata nel silenzi generale. E poi la scuola di per sé non ha nessun valore salvifico. La scuola è un toccasana solo se riesce a costruire una speranza. E in troppi casi non ci riesce, perché l’ambiente è troppo duro.
Sembra che i ragazzi di questi quartieri di Napoli siano caduti in un circolo vizioso. Come si può intervenire?
E con quali mezzi si interviene? Quelli che ci sono ora sono assolutamente inadeguati, almeno per due motivi. Non ci sono le forze sufficienti per aiutare i ragazzi a tornare a scuola e non c’è un tipo di scuola che possa andar bene per questi ragazzi. La formazione professionale qui rasenta lo zero e la metodologia scolastica è troppo distante dall’ambiente in cui vivono i ragazzi.
Che ambiente è?
Un ghetto. E i giovani hanno acquisito questo tipo di mentalità: se ne stanno chiusi e sono esclusi dal resto. E sono molto arrabbiati e nessuno li aiuta ad elaborare queste situazioni difficili. Il primo esempio, se vogliamo per un attimo tornare a questo terribile fatto di cronaca, sono gli amici del ragazzo che distruggono il pronto soccorso.
In che senso?
La distruzione del pronto soccorso è stata una reazione ad un fatto dolorosissimo. Quando muore un ragazzo – per qualsiasi motivo – gli amici sono sconvolti e come si reagisce allo sconvolgimento? Non ripensando a se stessi e alle proprie scelte di vita ma scaricando la rabbia su quelli che secondo loro non hanno salvato la vita dell’amico. Questo gesto è stato additato come una dimostrazione di criminalità. Io dico, invece, che è la dimostrazione di un infantilismo. Persone che non riescono a reggere il dolore e arrivano a distruggere tutto. Nei quartieri dove io opero, quartieri di periferia, l’odio e il rancore sono i primi sentimenti dei ragazzi. E nessuno fa niente per creare un’alternativa a tutto questo. Abbiamo sì avuto nel corso degli anni degli “interventi emergenziali”. Ma l’intervento “una tantum” non risolve niente, e quindi siamo in emergenza da 50 anni.
Cosa si può fare?
C’è bisogno di un intervento di fondo, strutturale. Un’azione capace di togliere questi luoghi dallo stato di ghetto per ritrovare e ricostruire una socialità umana che si è persa. E le risorse dovrebbero essere prima di tutto di persone. Non basta dire “aumentiamo lo stanziamento”. Ma la verità è un’altra.
Quale?
Di questa gente non gliene frega niente a nessuno. Non al mondo politico, non a quello culturale, non a quello dell’educazione. Lasciano che le persone se ne stiano lì, dimenticate da Dio e dagli uomini. Poi “quando si fa il morto”, si torna ad occuparsene per un po’ e poi un’altra volta il vuoto. Nelle periferie si fa troppo poco, quasi niente.
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