Mondo

Certezza e curiosità

di Wael Farouq

Uno dei pilastri della fede islamica è credere in tutti i profeti: “E dite loro ancora: ‘Noi crediamo in Dio, in ciò ch’è stato rivelato a noi e in ciò che fu rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, e alle Dodici Tribù, e in ciò che fu dato a Mosè e a Gesù, e ai profeti dal Signore; non facciamo differenza alcuna fra loro e a Lui tutti ci diamo!’“ (Co. 2:136).

Pertanto, non c’è sura del Corano che non menzioni un profeta o non accenni alla sua vita, riformulata dal testo sacro usando uno stile retorico, ricco di profondità, che ne svela il senso spirituale senza soffermarsi sui particolari. La comprensione del significato retorico e del senso spirituale del testo, tuttavia, non erano cose alla portata di un bambino di tredici anni quale io ero. A incuriosirlo terribilmente, invece, erano i dettagli mancanti per completare la storia del profeta. Domandò all’insegnante di religione se conoscesse qualcosa in più di quei dettagli, ma costui, ridendo delle sue domande, lo sgridò dicendogli: “Questo è il libro di Dio, non un libro di favole!”. Pur sentendosi frustrato, non si arrese. Sapeva, grazie all’insegnante di religione, che quelle vicende erano contenute nella Bibbia e anche che la Bibbia era stata scritta dopo la morte di Cristo, motivo per cui era stata falsificata, ma non gli importava. Voleva saziare la sua curiosità e sapere come andavano a finire quelle storie, anche se, secondo l’insegnante di religione, non erano vere.

Fu così che entrai, per la prima volta da solo e di mia spontanea volontà, in uno “stabilimento” cristiano (avevo già accompagnato mia madre in chiesa per presenziare al matrimonio di una delle sue amiche cristiane): si trattava della Libreria della Bibbia di Shubra, uno dei quartieri del Cairo in cui risiedono moltissimi cristiani. Entrare nella libreria richiedeva grande coraggio.

Se mi avesse visto qualcuno dei parenti, o dei vicini di casa, sarei stato sottoposto a una lunga inchiesta. Sapevo in anticipo che “la ricerca di particolari sulle storie dei profeti” non sarebbe stata una scusa accettabile, per la quale, forse avrei ricevuto una quantità ancor più grande di sarcasmo e prediche morali. C’era inoltre il pericolo che i commessi della libreria scoprissero che ero musulmano, nel qual caso mi sarebbe toccata in sorte la cacciata teatrale dal negozio, per dimostrare a tutti quanti – specialmente alla sicurezza nazionale – che lì non si ammetteva la vendita di libri cristiani ai figli dei musulmani. Alcuni, infatti, avrebbero potuto considerarla come un’attività missionaria che poteva portare alla chiusura della libreria.

Nessuno si voltò verso di me, mentre stazionavo di fronte allo scaffale pieno di edizioni e traduzioni diverse della Bibbia. Scelsi quella della casa editrice Dar al-Mashreq, edita la prima volta nel 1881 e curata dallo shaykh Ibrahim al-Yaziji, grande letterato arabo. Pagai il libro con i pochissimi soldi che avevo e uscii, quasi volando dalla felicità. Non riuscii a smettere di leggere e, sebbene non capissi molte cose, perché il libro era scritto nella lingua del XIX secolo, provavo una felicità infantile. Leggevo tutto il tempo, persino a scuola, nell’intervallo tra una lezione e l’altra, quando un giorno mi sorprese un mio compagno cristiano che mi strappò il libro dalle mani con violenza e mi disse arrabbiato: “Perché leggi il nostro libro?”. Gli risposi: “Questo è il mio libro, l’ho pagato io!”. Tentai di riprendermelo, ma lui mi spinse a terra. Subito la classe si divise in musulmani e cristiani e scoppiò una rissa. Andò a finire che fui accusato, con il mio collega cristiano, di fomentare il conflitto religioso. Il direttore della scuola, sentiti i dettagli di quanto era successo, ordinò allo studente cristiano di tornare in classe. Poi, dopo che questi se ne fu andato, mi disse: “Perché leggi i libri di quei miscredenti?!”. E mi sospese dalle lezioni una settimana per aver letto la Bibbia.

Il mio collega cristiano faceva parte di un’associazione ecclesiastica nella cui rivista, vent’anni dopo, lessi l’articolo di un prete che consigliava la ripetizione del battesimo ai cristiani che avessero ricevuto una trasfusione di sangue dopo un incidente, perché quel sangue poteva essere appartenuto a un musulmano!

L’estremismo che oggi pervade le società arabe non è altro che il risultato inevitabile della soppressione della curiosità, perché molti credono che educazione significhi opporre la certezza alla curiosità e perché essere curiosi nei confronti della certezza religiosa è sentito come un dubbio, o un’eterodossia. Per questo, ogni volta che sentiamo curiosità proviamo anche senso di colpa e, per espiare questa colpa, esibiamo un’eccessiva certezza. Chi visita il Cairo oggi avanza in una giungla di simboli religiosi: il hijab (velo che lascia scoperto il viso), il niqab (velo che lascia scoperti solo gli occhi), la barba lunga, il segno scuro sulla fronte dovuto alle frequenti preghiere, le croci tatuate sul dorso della mano e quelle grandi appese al collo, le formule religiose utilizzate in tutte le conversazioni, le scritte su auto e negozi con i versetti dei testi sacri, i giovani che leggono ad alta voce il Corano o la Bibbia sui mezzi pubblici, immagini e suonerie dei telefoni cellulari… Purtroppo, tutto questo non è nient’altro che una scorza, al di sotto della quale si nasconde la povertà di spirito.

 

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