Sostenibilità
Černobyl, dopo trentacinque anni è ancora in bilico tra paura e speranza
Il 26 aprile del 1986 si verificava l'esplosione del reattore numero quattro della centrale sovietica. Le conseguenze del peggior disastro nucleare della storia si fanno ancora sentire: non solo tumori ma, spiega Damiano Rizzi, Presidente di Fondazione Soleterre che da anni presta aiuto della popolazione colpita, anche una nuova forma di ansia sociale, la radiofobia
di Marco Dotti
Come dimenticare Černobyl? Difficile, anche per l’impatto che quel disastro continua sul campo dell’oncologia e, in particolare, di quella pediatrica. Dal 25 aprile del 1986, quando si verificò l'incidente all reattore Rbmk-1000 del blocco 4 nella centrale elettronucleare “Vladimir Il'ič Lenin”, a pochi chilometri dalle cittadine ucraine di Prypyat e Černobyl.
l’aumento dell’incidenza del cancro alla tiroide tra i bambini esposti alle radiazioni in Ucraina, Bielorussia e Russia è stato rilevante: sino al 2009 erano stati 6.049 i casi di cancro operati in Ucraina tra le persone esposte a radiazioni in età inferiore ai 18 anni; nel 2014, la cifra ha raggiunto quota 10.432.
In Ucraina dal 1991 al 1997 i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) hanno inoltre rilevato un aumento della prevalenza di neoplasie tra i bambini pari al 46%, delle anomalie congenite al 37%, e delle malattie del sangue al 97%. Nel 2020, nella fascia d’età 0-14 anni, sono stati registrati 1.442 nuovi casi di tumore, di cui 313 di leucemia, 136 del sistema nervoso, 71 di linfoma di Hodgkin, 71 di linfoma di Wilms, 24 di linfoma di Burkitt, 23 di Retinoblastoma.
La speranza dopo la paura
Non c’è solo dolore o malattia, ma anche speranza. Come nella storia a lieto fine di papà Andriy e di sua figlia Alisa. Alisa è una bambina ucraina che non ha vissuto la catastrofe di Černobyl, ma ne ha subito le conseguenze. Quattro anni fa le è stato diagnosticato un tumore. Un destino che purtroppo accomuna ancora tanti, troppi bambini in Ucraina. Nell’ambito dell’oncologia pediatrica, non si può ignorare l’impatto che il disastro di Černobyl del 1986 continua ad avere.
Ironia della sorte, il papà di Alisa è nato proprio nel 1986, l’anno del disastro. Ma in questo trentacinquesimo anniversario, per Andriy non c’è spazio per la tristezza o per la paura, solo per un messaggio di speranza: Alisa è guarita, sta bene e vive la vita di un qualsiasi suo coetaneo.
Racconta Andriy, papà di Alisa: «Nel 2017 Alisa ha festeggiato il suo 3 compleanno presso l’Istituto Nazionale del Cancro dove è stata ricoverata. La terribile diagnosi sul suo tumore aveva colpito anche noi, sconvolgendo completamente le nostre vite. Oggi Alisa ha 7 anni, è guarita e vive la vita come tutti i bambini della sua età. Gioca con gli amici, disegna, si gode la vita. Fortunatamente lei ricorda poco di quei tempi quando era malata: i suoi momenti impressi sono il gioco, l’altalena nel cortile della casa d’accoglienza. Durante tutto il periodo delle cure, infatti, potevamo stare nella casa di accoglienza Dacha dove nelle pause tra i cicli di chemio le famiglie possono stare insieme e sentirsi come a casa. E’ un grande sostegno per le famiglie che stanno lottando contro il tumore per la cosa più preziosa, la vita dei loro figli».
Una nuova emergenza: l'angoscia da radiazioni
Oggi, oltre a quella oncologica, nelle zone toccate dal disastro nucleare di trentacinque anni or sono, si fa largo una nuova emergenza. L’ha mappata la Fondazione Soleterre, attiva da quindici anni in Ucraina, in aiuto a una media di 600 bambini malati di tumore all’anno con i loro genitori.
Di che cosa si tratta? Di angoscia. A trentacinque anni dallo scoppio del reattore l’Ucraina è infatti tra i ventitré Paesi con il più alto tasso di suicidio tra gli adulti dai 25 anni: il 30,3% per i maschi e il 5,3% per le donne.
Sono molti gli studi condotti in questi ultimi 35 anni che rivelano gli effetti delle radiazioni e della radiofobia, ovvero della paura persistente, eccessiva o irragionevole riguardo a un oggetto o una situazione.
«Le radiazioni ionizzanti possono causare disfunzionamenti cognitivi non solo a chi è stato effettivamente esposto, ma anche a causa della cosiddetta esposizione percepita, la paura delle radiazioni o radiofobia», afferma Damiano Rizzi, psicologo clinico e Presidente di Fondazione Soleterre che per 4 volte, a partire dal 2001, è stato all’interno della zona rossa della centrale di Chernobyl.
L’ansia da radiazioni colpisce profondamente anche chi non è stato direttamente esposto perché si basa sulla paura di qualcosa di sconosciuto. Il termine "sindrome da radiofobia" venne introdotto l'anno dopo la catastrofe da L. A. Ilyin e O. A. Pavlovsky nella loro relazione sulle "Conseguenze radiologiche dell'incidente di Černobyl in Unione Sovietica e misure adottate per mitigarne l'impatto".
I dati in letteratura pubblicati di recente sull’International Journal of Radiation Biology, spiega Rizzi, «hanno mostrato che in 35 anni di studi gli effetti dello stress psicologico sulla funzione cognitiva sono stati causati da infiammazione vascolare, la neuroinfiammazione, alti livelli di cortisolo e diminuzione della neurogenesi». Un dato, questo, di cui tener conto, quando parliamo di nucleare come «energia pulita» perché i suoi effetti su quell’animale prettamente simbolico che è l’uomo non si limitano a tumori conseguenza di effetti indesiderati e secondari.
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