Sostenibilità

Cerchiamo consumattori

Le merci del Sud del mondo conquistano il mercato italiano: 22 miliardi di fatturato nel '98. E in futuro le scelte dei consumatori saranno parte attiva per lo sviluppo del Terzo mondo

di Federico Cella

Quali criteri utilizzate nella scelta di una confezione di caffè al supermercato? Il prezzo? La miscela arabica? Oppure il fatto che sia stato prodotto, importato e commercializzato secondo dettami equi e di solidarietà con i lavoratori dei Paesi del Sud? La domanda assume ancora più importanza in questi giorni che Transfair Italia, il marchio sociale che nel nostro Paese certifica e distribuisce per il grande pubblico i prodotti equi e solidali, compie insieme al nostro magazine i cinque anni di vita. Un’iniziativa – il Commercio equo e solidale – che vuole proporre una via alternativa al commercio tout-court, associandogli tematiche di sensibilità e sviluppo che solitamente non gli sono proprie.
Quella che sembra, ed è, una bella avventura è partita nel nostro Paese negli anni Ottanta con le Botteghe del Mondo, riunitesi dal 1989 in avanti nel Consorzio Ctm Altromercato, una realtà senza fine di lucro in grado di fatturare nell’ultimo anno 22 miliardi, con un tasso di crescita pari al 20%. Al fianco delle circa cento cooperative legate a Ctm, nel 1994 si è quindi schierato anche in Italia il marchio sociale Transfair, che ha permesso la definitiva distribuzione dei prodotti etici anche sul nostro mercato, anzi, nel nostro supermercato. Ora questi prodotti sono presenti in circa il 35% della distribuzione organizzata. «Attualmente, però, siamo attestati solo sullo 0,3% del totale nazionale dei consumi», spiega Paolo Pastore di Transfair Italia. «Mentre il futuro deve vedere l’Italia raggiungere medie europee, dove i prodotti etici hanno raggiunto stabilmente il 3% del totale. La nostra è quindi una nicchia, ma che deve essere in grado di fare da apripista all’introduzione in massa di ogni tipo di prodotto, quindi non solo alimentari, dotato di una propria certificazione sociale».

Nasce il prodotto progetto
Perché quello proposto dal Commercio equo e solidale è un nuovo tipo di prodotto, il cosiddetto prodotto-progetto, che oltre a essere un bene di consumo, racchiude in sé una serie di elementi aggiuntivi di valore sociale. Criteri di produzione e distribuzione che partono, prima di tutto, dall’individuazione di un gruppo produttore svantaggiato nell’area del Sud del mondo, con il quale instaurare una relazione commerciale che prevede, in primo luogo, la fissazione di un prezzo minimo che oltre a coprire i costi di produzione assicuri un margine di guadagno tale da consentire investimenti. Il ciclo virtuoso prosegue con un prefinanziamento per le prime fasi della produzione ed è legato a relazioni contrattuali di lungo periodo, quindi alla possibilità di creare nuova occupazione, e all’attenta gestione delle risorse naturali. «Lo scopo finale è di ottenere una dinamica di autosviluppo nei Paesi poveri, che possano così creare una propria strategia economica e, dunque, slegarsi dalla dipendenza dagli “aiuti” provenienti dall’Occidente», prosegue Pastore.

I consumatori diventano attori
«La scommessa futura in Italia si sviluppa in due direzioni: da un lato dare la possibilità ai consumatori tutti di poter scegliere sempre più fra i prodotti equi e quelli dall’origine incerta, dai processi produttivi iniqui, cavalcando la sensibilità che la grande distribuzioneha mostrato di avere; dall’altra fare in modo che i cittadini diventino “consum-attori”, ossia che sentano e quindi si assumano la responsabilità che deriva dalle loro scelte». Scelte che sono sempre più consapevoli. Al punto che anche l’area commerciale profit deve iniziare a fare i conti con la richiesta di una qualche forma di marchio di garanzia sociale: la globalizzazione incontrollata, lo sfruttamento del lavoro sotto pagato e privo di regole – il lavoro minorile, per esempio – non pagano più, perché distruttivi per le aziende sotto forma di immagine. Le multinazionali più illuminate, ma meglio sarebbe dire le più tartassate, lo hanno capito, e stanno adeguando a questa sensibilità dei clienti le loro strategie. «Ora ci sentiamo socialmente responsabili di quello che, direttamente o indirettamente, compiamo; l’azienda ha posto fra i propri doveri la necessità di agire in modo sostenibile rispetto al mondo in cui lavora», ci spiega Massimo Giunco, responsabile delle relazioni esterne di Nike Italia. «Da qualche anno Nike si occupa di marketing sociale, e per il 1998, per esempio, ha investito 34 milioni di dollari come donazioni. Ho detto “investito” proprio perché Nike intende questi soldi come una forma di investimento, che noi chiamiamo “win-win”: vince l’azienda, che si fa pubblicità, ma vincono anche i destinatari del messaggio, soddisfatti della trasparenza e delle ricadute sociali delle nostre dinamiche produttive». Scenari da un mondo finalmente equo e solidale?

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