25 novembre

C’era una volta una principessa che si salvò da sola

Si chiede alla scuola di educare alla parità, ma gli insegnanti sono impreparati a farlo. «La pedagogia di genere vuole aprire degli orizzonti di pensabilità futura, sia per i maschi che per le femmine. Occorre raccontare di principesse che si salvano da sole e di maschi che non necessariamente siano cavalieri forti audaci e assertivi. Per debellare la violenza di genere bisogna partire da qui», dice la professoressa Irene Biemmi, componente del Comitato Scientifico della Fondazione Giulia Cecchettin

di Veronica Rossi

Quella contro la violenza è una battaglia che si gioca prima di tutto in campo culturale. Le campagne che in questi giorni tappezzano le nostre città – pensiamo solo ai cartelloni sui mezzi pubblici a Roma e Milano, che invitano a riconoscere i sintomi, a chiedere aiuto e a denunciare – sono utili, ma serve un intervento più profondo, strutturale. Che educhi, prima di tutto, a esprimersi liberamente, al di là degli stereotipi che ancora oggi permeano le nozioni di “maschio” e “femmina”. Bisogna partire dai bambini e dalle bambine, fornendo molteplici modelli e smontando i pregiudizi. Per questo, servono insegnanti formati. Ed è proprio qui che si inserisce la pedagogia di genere, ambito di studio di Irene Biemmi, professoressa dell’università di Firenze, componente del Comitato Scientifico della neonata Fondazione Giulia Cecchettin e autrice – insieme a Barbara Mapelli – del volume Pedagogia di genere. Educare ed educarsi a vivere in un mondo sessuato (Mondadori, 2023)

Che cos’è la pedagogia di genere?

La pedagogia di genere intende insegnare ai e alle docenti, che porteranno queste tematiche in classe, a decostruire gli stereotipi e i pregiudizi sessisti e a promuovere un’idea di uguaglianza, di parità e di rispetto tra i generi. Questo è fondamentale per debellare nel lungo periodo le relazioni violente tra uomini e donne. Prima di questa parte propositiva, però, c’è anche una parte critica e decostruttiva, che mira a valutare cosa non funziona attualmente nella scuola italiana, un sistema che, anziché mettere al riparo dalle disuguaglianze di genere, non fa altro che reiterare stereotipi e pregiudizi.

Nei libri di lettura della scuola primaria, per esempio, si continuano a tramandare modelli di mascolinità e di femminilità che sembrano congelati agli anni ‘50 del secolo scorso

In cosa si può vedere?

L’esempio più clamoroso è forse quello di cui mi occupo da tempo e che costituisce uno dei focus principali delle mie ricerche: gli stereotipi di genere nei libri di testo. Nei libri di lettura della scuola primaria, per esempio, si continuano a tramandare ancora oggi modelli di mascolinità e di femminilità che sembrano congelati agli anni ‘50 del secolo scorso. Gli uomini lavorano, rivestono importanti ruoli professionali, fanno mille mestieri, stanno tutto il giorno fuori casa perché devono mantenere economicamente la famiglia. Le donne sono ritratte tendenzialmente come madri, che raramente svolgono una professione, non appaiono economicamente indipendenti e prestano la loro vita ai lavori educativi e di cura interni alla famiglia. In questi stessi libri leggiamo di bambini maschi forti, esuberanti, vivaci e coraggiosi, mentre le bambine sono l’esatto opposto, tranquille, sedentarie, sentimentali, emotive. Il ministro Valditara ha detto che il patriarcato è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975: credo quantomeno che dovrebbe riflettere su quanto la scuola stessa reiteri ancora oggi questi processi. C’è poi un altro aspetto.

Quale?

Ogni anno, il 25 novembre, si dice che la scuola dovrebbe risolvere tutti i problemi, educare alla parità e debellare la violenza. I docenti, però, non sono formati per farlo. La formazione iniziale dei futuri insegnanti ed educatori/educatrici, salvo poche eccezioni – e l’ateneo in cui insegno è una di queste non prevede la minima conoscenza della cultura di genere e delle pari opportunità. Si scarica quindi sulla scuola la responsabilità di un progetto certamente virtuoso – educare alla parità – ma al tempo stesso non si formano le/gli insegnanti a compiere questo processo effettivamente molto complesso.

Irene Biemmi

Se lei dovesse spiegare a un insegnante come si fa pedagogia di genere, cosa risponderebbe?

Ci sono strategie educative che variano moltissimo a seconda della fascia d’età. In quella che mi è più cara, quella da zero a sei anni, e poi dai sei ai dieci anni, ci sono sistemi molto efficaci, il più importante dei quali è fornire contro-modelli di genere. Se la società ci dice che il polo maschile è quello virtuoso, coraggioso, economicamente indipendente e il polo femminile è quello subalterno, occorre mostrare dei libri di narrativa o albi illustrati per i più piccoli in cui vengono messe in scena protagoniste audaci, coraggiose e indipendenti. Questo diventa uno strumento molto efficace per contrastare la rigidità dei modelli di genere tradizionali. C’è da fare un grande lavoro anche sul maschile, mostrando maschi che si prendono cura, che sono sensibili, emotivi. Sono quelle che vengono definite “contro-narrazioni” di genere, che bilanciano la narrazione dominante, fornendo una pluralità di modelli sia maschili che femminili, non dicotomici e non prescrittivi, in modo che i bambini e le bambine non siano condizionati in futuro dalla loro appartenenza di genere.

Si scarica sulla scuola la responsabilità di un progetto certamente virtuoso – educare alla parità – ma al tempo stesso non si formano le/gli insegnanti a compiere questo processo effettivamente molto complesso

Ci dà qualche consiglio di lettura?

Sulla fascia zero-sei, così come per tutta la scuola primaria, ci sono ormai case editrici e collane editoriali dedicate proprio alla promozione della cultura dell’uguaglianza. Io in particolare – e qui devo essere autoreferenziale – curo da dieci anni una delle pochissime collane in Italia dedicate a questo tema, “Sottosopra” per l’editore Giralangolo (Torino). Il catalogo è costituito da albi illustrati in cui, per esempio, ci sono delle principesse che si salvano da sole e non sognano affatto una vita matrimoniale. Ci sono bambini sensibili, emotivi, che giocano con le bambole, papà attenti, mamme lavoratrici.

I libri scolastici sono infestati dal sapere patriarcale. Quante scrittrici bravissime, quante letterate e scienziate ci sono che oggi non sono incluse negli insegnamenti scolastici?

Invece, quando i bimbi sono un po’ più grandi?

I libri di testo alle medie diventano disciplinaristi, quindi abbiamo volumi di storia, geografia, letteratura, matematica, scienze etc. Quei volumi sono infestati dal sapere patriarcale, perché, come sappiamo, sono totalmente offuscati i saperi prodotti dalle donne. Quante scrittrici bravissime, quante letterate e scienziate ci sono che oggi non sono incluse negli insegnamenti scolastici? Questa fondamentale revisione dei saperi richiede una grande consapevolezza da parte degli e delle insegnanti. Per fare educazione di genere in classe bisogna essere formati alla cultura di genere, non ci si può improvvisare.

Anche per iniziare un discorso più diretto?

Con le ragazze e i ragazzi più grandi più grandi (scuola secondaria di primo e secondo grado) il primo nodo da decostruire è il concetto stesso di genere che, come sappiamo, è un costrutto socio-culturale. La differenza sessuale è puramente biologica, ma le differenze tra maschi e femmine non sono affatto “naturali”: sono socialmente e culturalmente acquisite. Questo è ciò che si intende con differenze di genere. Bisogna far capire che i ruoli che nella società hanno i maschi e le femmine – che spesso si configurano come squilibri di potere – non sono frutto di attitudini naturali: sono culturalmente appresi e quindi possono essere modificati. Poi, ovviamente, c’è da fare tutto un lavoro sull’identità di genere e sui diversi orientamenti sessuali, sull’educazione al rispetto.

Bisogna far capire che i ruoli che i maschi e le femmine hanno nella società – che spesso si configurano come squilibri di potere – non sono frutto di attitudini naturali: sono culturalmente appresi e in quanto tali possono essere modificati

Quindi educare bambini e bambine a vedere le differenze di genere in modo meno rigido può essere il primo step verso l’abolizione della violenza.

Lo scopo principe della pedagogia di genere è restituire a ogni individuo che nasce maschio o femmina la libertà di progettare il proprio futuro e fare le proprie scelte nella maniera più libera possibile. Questo discorso ovviamente non vale solo per il mondo femminile. A partire dallo studio pionieristico fatto nel 1973 in Dalla parte delle bambine di Elena Giannini Belotti ci si è posti in questa prospettiva femminile, perché storicamente sono state le donne e le bambine più penalizzate da questi processi di categorizzazione e di subalternità. Spostando lo sguardo sull’oggi, io credo che vadano educati moltissimo i maschi, fin dall’infanzia, per aiutarli a comprendere che non c’è un unico modello di mascolinità a cui aderire, quello del cavaliere, dell’eroe forte, audace, coraggioso, razionale e assertivo. Ci sono una pluralità di modelli che in libertà ciascuno di noi può scegliere. In soldoni, la pedagogia di genere vuole aprire degli orizzonti di pensabilità futura, sia per i maschi che per le femmine. Tutto questo è propedeutico a un’azione che voglia debellare la violenza di genere, perché se uomini e donne sono posti su un piano di parità – con uguali dignità, diritti, opportunità – si aboliscono le gerarchie di potere che sappiamo essere i pilastri su cui si fonda la violenza di genere.

Foto di Kelly Sikkema su Unsplash

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