Raccolgo con comprensione le parole del presidente di Federsolidarietà/Confcooperative Guerini pubblicate su Vita a proposito del tema del welfare integrativo. A queste vorrei aggiungere alcune mie riflessioni.
Guerini rileva giustamente che se il welfare integrativo non assume la rilevanza di bene comune, connettendosi alla dimensione della responsabilità sociale, si corre il rischio che diventi fonte di ulteriori disuguaglianze sociali. Non potrei essere più d’accordo. Ma chi si dovrebbe fare carico di garantire il ruolo del welfare aziendale come bene comune? Come si dovrebbe riuscire ad assicurare che questa partita garantisca effetti mutualistici e generativi? Guerini osserva un ruolo ancora troppo marginale del Terzo settore nella partita. Forse è questa una delle ragioni – ma non certo l’unica – per cui il termine “welfare aziendale” nel dibattito e nelle prassi aziendali, si sta progressivamente svuotando del significato che la parola “welfare” porta con sè, e si sta concentrando sulla partita economica/monetaria legata al maggior potere d’acquisto garantito dalla normativa fiscale o al risparmio contributivo.
Oggi la principale preoccupazione di chi propone piani di cosiddetti “flexibile benefits” è quello di garantire la spendibilità di questi importi detassati a tutti i dipendenti. Giusto in principio. Ora il problema è che per far in modo che tutti possano spendere gli importi assegnati nel corso dell’anno solare vi è una corsa all’acquisto di cofanetti viaggio, abbonamenti alla pay tv, biglietti del cinema, ingressi alla Spa, buoni per spese via commercio elettronico etc. Cos’ha a che fare tutto questo con il welfare qualcuno ce lo dovrebbe spiegare. Incontriamo ogni giorno piccole medie imprese con il CCNL metalmeccanico in difficoltà perché entro giugno devono adempiere all’obbligo dei 100 euro procapite in welfare previsti dal contratto. La scelta dei servizi esemplificata nel contratto è molto ampia, forse troppo, e si finisce spesso per optare per il semplice acquisto di qualche buono – carburante, spesa, o viaggio che sia – che tutti si possano spendere invece che concentrarsi, ad esempio, sui fondi previdenziali e sanitari. E’ sicuramente un bene che il welfare sia entrato nella contrattazione, ma non si intravede ancora un minimo di ragionamento sui temi di protezione sociale, e ancor meno di mutualismo.
Aggiungo che anche la possibilità di rimborsare liberamente le spese di cura e assistenza (propria, di figli, famigliari non autosufficienti) come viene attualmente gestito, rischia di accentuare le disuguaglianze. In assenza di un modello di governance per cui queste risorse vadano a convergere – in modo integrato e sussidiario – su un’infrastruttura di welfare presidiata e controllata nella modalità di erogazione, non è possibile pensare, in tutta onestà, che possano scaturire elementi di mutualismo e generatività da questa operazione. Occorre ragionare su chi si debba fare portatore di queste istanze. Oggi ci sono esempi virtuosi di imprese per le quali i termini welfare e responsabilità sociale sono in linea di continuità. Non sono solo le imprese famigliari fortemente radicate sul territorio, come Loccioni e Cucinelli, ma anche società come SEA e SACE, che offrono modelli innovativi di welfare e CSR che hanno saputo cambiare nel tempo e leggendo e ascoltando i bisogni delle persone e della società. Sono questi modelli (unilaterali e contrattuali) che andrebbero portati a sistema. Modelli in cui l’impatto del welfare aziendale non si misura esclusivamente in termini di risparmio sul costo del lavoro ma viene letto e misurato in termini di impatto sociale sul territorio.
L’operazione non è semplice, certamente. Per questo sono indispensabili nuove alleanze, per far convergere e non disperdere le risorse e generare innovazione e benessere comune. Il terzo settore può e deve avere una voce maggiore in questo ambito, muovendosi assieme ad altri attori, pubblici e privati, per giocare al meglio questa partita.
Francesca Rizzi
Ceo JOINTLY – Il welfare condiviso
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