Il nuovo governo di Bangui, composto da 34 personalità, frutto di un rimpasto annunciato la scorsa settimana, annovera al suo interno otto nuovi ministri, esponenti della società civile, dell’ex maggioranza e dell’ex opposizione democratica. Ma i ribelli della coalizione Séléka, mantengono i dicasteri chiave – Sicurezza, Petrolio, Acque/Foreste e Comunicazione – mentre il presidente di transizione e capo del Séléka, Michel Djotodia, conserva anche l’incarico di ministro della difesa ad interim. Sta di fatto che da quando la coalizione Séléka ha cacciato l’ex presidente François Bozizé, la popolazione è vittima di sopraffazioni d’ogni genere che vanno dalle esecuzioni sommarie, alle violenze sessuali; da arresti di membri dell’opposizione a torture spietate, sparizioni, reclutamento di bambini soldato e saccheggi. Il dato più inquietante è rappresentato dai costanti attacchi perpetrati nei confronti di alcune confessioni religiose e gruppi etnici. Non è un caso se gran parte dei ribelli del Séléka sono ciadiani e sudanesi di fede islamica. È comunque urgente portare aiuto umanitario a una popolazione in pericolo e favorire allo stesso tempo il ristabilimento del processo democratico, prima che sia troppo tardi. D’altronde, l’instabilità nella quale è sprofondata questa ex colonia francese è così evidente che potrebbe trasformarsi nel ricettacolo dei peggiori gruppi armati operativi oggi in Africa. Vi sono d’altronde già alcune testimonianze che parlano di esponenti del jihadismo più radicale, provenienti dalla Nigeria, dal Mali, dalla Libia e dall’Algeria. Per non parlare degli irriducibili ribelli nordugandesi dell’Esercito di Resistenza del Signore (Lra), che già da tempo hanno trovato riparo in un triangolo compreso tra Sudan, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana. Quest’ultima rappresenta un facile rifugio per ogni genere di movimento terroristico.
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