Volontariato
Cento anni dopo, occorre disertare ancora le sacre nozze tra stupidità e potenza
Questo articolo è stato pubblicato su Azione nonviolenta – la rivista fondata da Aldo Capitini – nel numero dedicato alle opposizioni alla “grande guerra” (sett-ott 2015). Dunque è stato scritto prima della strage di Parigi e della risposta bellica che ne è stata innestata. Che ne conferma tragicamente le tesi di fondo. La rivista sarà presentata a Reggio Emilia il 3 dicembre.
C’è una retorica vischiosa che circonda il Centenario dell’ingresso del nostro Paese nella “grande guerra“, la quale – pur lontana dalla narrazione nazionalista di un tempo – continua a considerare “servitori della Patria” coloro che furono uccisi in guerra e “codardi” quello che cercarono di “sottrarsi al proprio dovere”, coloro che disertarono. Eppure, cento anni sono sufficienti affinché, almeno in riferimento alla prima guerra mondiale, la storiografia cominci ad occuparsi di quella che la storica Anna Bravo chiama la “genealogia del sangue risparmiato”. Che inizia, secondo l’autrice de “La conta dei salvati”, proprio “con quei soldati della Grande Guerra che si accordavano con il nemico per salvare la propria vita, e la sua, grazie all’autolimitazione della distruttività”, ma che sicuramente possiamo estendere anche ai renitenti, ai disobbedienti, agli obiettori di coscienza, insomma a tutti coloro che rispetto all’avventura bellica del proprio Paese espressero il proprio personale “NO alla Grande guerra”, per citare il titolo dell’importante libro di Ercole Ongaro.
Si tratta di ribaltare il paradigma che finora ha indicato ad eroi quella “turba di muli e di vigliacchi , trascinata per la gola agitandole alle spalle gli spettri della polizia militare e dei plotoni di esecuzione”, ai quali – come scrivevano Forcella e Monticone nella loro ricerca degli anni ’70 sui processi della prima guerra mondiale Plotone di esecuzione – “la qualifica di eroi e di trionfatori gliela aveva però attribuita la minoranza nei monumenti, nelle lapidi e nelle motivazioni delle medaglie al valore senza chiedere il permesso agli interessati.” E’ anche per loro, per chi è stato trascinato in quella e nelle successive guerre – che sempre di più hanno colpito e colpiscono direttamente i civili – che è necessario ribadire che chi ha ubbidito alla logica dell’uccidere o morire è stato costretto a disertare l’umanità propria e altrui. Mentre chi ha disertato questa logica ha costituito un esempio che non è solo necessario ricordare, ma soprattutto attualizzare.
Ricordiamola ancora una volta questa “grande guerra”, che fu chiamata così non solo per la sua dimensione intercontinentale ma soprattutto per la potenza distruttiva messa in campo su larga scala da tutti gli eserciti. Quei 4 anni di guerra provocarono la repentina riconversione delle moderne invenzioni tecniche in strumenti bellici, finalizzati al terrore di massa. Le nuove fabbriche fordiste subirono una riconversione al contrario, piegate al servizio delle armi chimiche, dei carri armati, degli aerei da combattimento, dei sottomarini da guerra, moltiplicando la produzione in tutti i settori. La conversione di chimica, meccanica e aeronautica in tecnologia bellica industriale, diede l’avvio a quel perverso “complesso militare-industriale”, il cui sviluppo da allora non si è più arrestato ed ancora nel 2014 – dopo cento anni di guerre – è costato all’umanità qualcosa come 1800 miliardi di dollari, sacrificati sull’altare delle spese militari (dati SIPRI). Insomma, con 60 milioni di combattenti e 16 milioni di morti, di cui 7 milioni di civili, la guerra diventò, per la prima volta, di massa e totale, impostando e ipotecando il futuro tragico del ‘900 fino ai nostri giorni.
L’Italia non volle sottrarsi dal partecipare al massacro e il 24 maggio del 1914, in seguito ad un colpo di mano antidemocratico, il governo italiano di Antonio Salandra, in combutta con il re Vittorio Emanuele III, dichiarò guerra all’Austria. Nelle settimane precedenti, senza informare il Parlamento – in larga maggioranza contrario alla guerra, così come il Paese – e ribaltando l’impegno neutralista assunto solennemente nell’agosto dell’anno precedente, aveva segretamente stretto alleanza con la Triplice Intesa in funzione anti austriaca. È l’inizio del tributo italiano alla “inutile strage” (papa Benedetto XV). Tra gli italiani le vittime, militari e civili, furono 1.240.000, cioè il 3,4 % della popolazione, in grandissima parte appartenente ai poveri ceti popolari. Tuttavia, dei 5 milioni e 200mila italiani che furono chiamati alla guerra, e ne comprendevano la follia, 470mila, ossia il 15%, furono denunciati per renitenza e 100mila disertarono. Molti di questi furono direttamente passati per le armi dai propri ufficiali attraverso la decimazione di interi reparti: l’uccisione casuale di un soldato ogni dieci per combattere gli ammutinamenti delle truppe.
Nella guerra, che dispiegherà le sue ali di morte fino al 1918, gettando i presupposti generatori di fascismo e nazismo – a partire dalla decretazione d’emergenza che in Italia introdusse l’internamento per i “disfattisti” e arrivò a comminare fino a 5 anni di carcere a chi “deprimesse lo spirito pubblico recando pregiudizio agli interessi connessi con la guerra” – c’è un’evoluzione strategica definitiva: per la prima volta vennero utilizzati tutti i mezzi di distruzione di massa che erano stati sviluppati dalla rivoluzione industriale, senza limiti. I corpi delle persone vennero considerati meri mezzi per raggiungere fini di potenza, vera e propria carne da macello. Nei piani degli Stati maggiori sia il proprio esercito che quello avversario divennero una massa di “materiale umano che andava annientato con le macchine” (E. Krippendorf, Lo Stato e la guerra), al punto che nelle sue note di guerra il generale Cadorna – ribattezzato, non a caso, “il macellaio” – scriveva “le sole munizioni che non mi mancano sono gli uomini” …
Una follia, all’interno della quale i soli barlumi di lucidità possono essere rintracciati – tra il 1914 e il 1918 – proprio nelle renitenze e nelle diserzioni dei molti giovani che si rifiutarono di andare a morire ed uccidere nelle trincee d’Europa (come i diciottenni reggiani Mario Baricchi e Fermo Angioletti, uccisi dall’esercito in piazza), negli ammutinamenti e nelle insubordinazioni di massa dei soldati stanchi di essere mandati al macello dai propri superiori (come narra la migliore filmografia di guerra, da “Orizzonti di gloria” di Kubrik a “Uomini contro” di Rosi, al più recente “Torneranno i prati” di Olmi ), nelle tregue spontanee dal basso, come quella che fu realizzata dai soldati lungo tutto il fronte occidentale intorno al Natale del 1914, con l’intonazione di canti di pace nelle diverse lingue e scambi di poveri doni tra le due trincee, per non dimenticarsi della propria umanità. Tutte azioni di disarmo personale, si disubbidienza diffusa e obiezione popolare alla logica della guerra. Azioni compiute da uomini, allora perseguitati oggi dimenticati o denigrati, per i quali non ci sono cippi né monumenti. Eppure sono loro gli unici eroi “di guerra” che meritano oggi di essere indicati ad esempio e monito per le attuali e future generazioni.
Oggi – esattamente un secolo dopo la “prima guerra mondiale”, a settanta anni dalla conclusione della “seconda”, a venticinque anni dall’abbattimento del muro di Berlino con il quale terminava la “guerra fredda” – ci troviamo incredibilmente immersi nella “terza guerra mondiale diffusa” (come definisce la situazione attuale papa Francesco) alimentata da una furiosa corsa agli armamenti che non provoca più la guerra solo come “continuazione della politica con altri mezzi” (von Clausewitz), ma la promuove come unico mezzo di politica internazionale a disposizione dei governi e dei gruppi di potere per affrontare o, sempre più spesso, creare i conflitti armati. Una guerra generalizzata di tutti contro tutti, che produce terrore e terrorismi, alimenta esodi biblici di popoli in fuga, alza muri, fili spinati e cavalli di frisia tra i confini, anche in quello stesso cuore d’Europa che pare non abbia appreso nulla da un secolo di guerre mondiali. In questo scenario – nel quale sembra non esserci alcuna alternativa alla follia delle guerre ed al potenziamento internazionale dello strumento militare – occorre ancora obiettare alla retorica bellicista ed al mestiere delle armi, non arruolare le menti alla logica del nemico e promuovere il disarmo culturale e militare. Disertare ancora quelle che Karl Kraus ne “Gli ultimi giorni dell’umanità” ha chiamato “le sacre nozze tra Stupidità e Potenza”, che ancora oggi continuano ad essere tragicamente celebrate ad ogni latitudine del pianeta..
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