Economia

CENSIS. L’economia italiana poggia sulla piccola impresa

Una ricerca del Centro Studi Investimenti Sociali sul mercato del lavoro evidenzia l’importanza dell’ossatura economica del nostro paese che si regge sui piccoli e piccolissimi imprenditori.

di Redazione

«Uno dei problemi che lo Stato ha di fronte è di cassa. Quello dei ritardi nei pagamenti, di cui è difficile dare una stima precisa, è un fenomeno gravissimo di cui è necessario occuparsi. Un fenomeno complesso perché riguarda i diversi livelli amministrativi, che però rischia di impedire al mondo imprenditoriale, in particolare alle aziende di piccola dimensione, di evolversi. Per questo solleviamo il problema del terziario. L’Italia ha davvero bisogno di una scossa». Commenta così Giuseppe Roma una delle questioni sollevate dalla ricerca realizzata dal Censis e presentata stamane, su La società solida degli “invisibili”.

Un paese che tiene

«I piccoli produttori resistono. Sono 4,3 milioni gli imprenditori alla guida di piccole e piccolissime realtà imprenditoriali che non superano la soglia dei 20 addetti, occupano 9,8 milioni di lavoratori e generano un valore aggiunto di 303 miliardi di euro. Garantiscono quindi il 57,6% dell’occupazione nelle imprese manifatturiere e dei servizi, il 44,8% del valore aggiunto prodotto, il 39,2% degli investimenti realizzati. La crisi ci ha ricordato che la nostra economia poggia sulla ossatura solida dei piccoli e piccolissimi imprenditori». «Anche oggi che la crisi li mette a dura prova, minacciando i processi di crescita e costringendo alcuni a chiudere, il primo trimestre 2009 ha registrato l’ennesimo saldo negativo, con una perdita netta di 40 mila imprese sono loro a mostrare una buona capacità di tenuta», spiega il Censis. Tra il primo bimestre del 2007 e quello del 2009, a fronte di una contrazione complessiva del 22,5% del volume delle esportazioni italiane, hanno retto meglio le piccolissime imprese (1-9 addetti: -9,5%) e quelle con 10-49 addetti (-13,5%). Tra il primo bimestre del 2008 e quello del 2009 solo il 28,8% delle aziende italiane ha registrato un bilancio positivo sul fronte dell’export, nonostante la cattiva congiuntura, ma tra le piccolissime imprese (con meno di 10 addetti) la quota sale al 33,6% e in quelle con 10-49 addetti al 30,1%.

Un mercato del lavoro frammentato

«Nell’Italia che cerca di rialzare la testa dopo i colpi della crisi c’è un popolo senza visibilità, quello della piccola imprenditorialità e del lavoro autonomo, che esprime la voglia di sviluppare una rinnovata rappresentanza dei propri interessi. Ma oltre a questa porzione solida della società, la realtà degli “invisibilì” è fatta anche di giovani dal futuro incerto, lavoratori extracomunitari e badanti, “qualcosisti” impiegati in un terziario dai contorni confusi, tutti soggetti senza voce e rappresentanza, che insieme compongono un mosaico spesso ignorato dalle statistiche ufficialiC, continua il Censis. «Sono 4 milioni 628 mila i lavoratori “di mezzo”, nè dipendenti, nè completamente autonomi, ovvero il 20% dell’occupazione complessiva del Paese», aggiunge il Censis, «si tratta di un universo costituito da figure professionali estremamente diverse, accomunate dalla condizione di instabilità. Vi rientrano infatti: 2 milioni 323 mila lavoratori dipendenti con contratti a termine (pari al 9,9% degli occupati), tra cui apprendisti e interinali; 370 mila collaboratori a progetto (l’1,6% dell’occupazione); 828 mila partite Iva (il 3,5% dell’occupazione), ovvero consulenti che lavorano per un solo cliente; circa 900 mila semi-professionisti (il 4,3% dell’occupazione), vale a dire autonomi che, pur avendo più di un committente, sono tenuti a rispettare vincoli di orario e di presenza imposti dai clienti presso cui lavorano; 95 mila collaboratori occasionali che lavorano a intermittenza, solo quando si creano opportunità. Nell’anno della crisi, il 2008, il settore del paralavoro ha pagato un prezzo concreto, registrando una perdita netta di 136 mila unità (-2,9%), mentre il lavoro tradizionale, autonomo e dipendente, sostanzialmente teneva. A subire il ridimensionamento più drastico sono stati i lavoratori a partita Iva monocommittenti: quasi 243 mila unità in meno nell’ultimo anno (-22,7%).

Il micro welfare e il terziario

Tra il 2001 e il 2008 il numero di colf e badanti è, invece, aumentato da 1 milione 83 mila a 1 milione 484 mila, registrando una crescita del 37%. Dal 2003 al 2007 il numero di famiglie che hanno fatto ricorso a un collaboratore domestico è passato da 1 milione 929 mila a 2 milioni 451 mila (+27%), portando dall’8,7% al 10% la percentuale di famiglie italiane che si avvalgono di questi servizi», continua il Censis. «Il settore terziario produce sempre meno occupazione. Il numero dei nuovi posti di lavoro creati nel comparto dei servizi è passato da 1 milione 400 mila nel quinquennio 1998-2003 a 735 mila nel quinquennio 2003-2008, riducendosi della metà. Il composito mondo delle attività di servizio alle imprese, della consulenza, della comunicazione, del marketing, da sempre motore di sviluppo del comparto, ha registrato una battuta d’arresto, riducendo di circa un terzo il numero dei nuovi occupati (da 415 mila nel periodo 1998-2003 a 265 mila nel periodo 2003-2008). Se fino a qualche tempo fa l’ampio sviluppo del terziario aveva garantito che a nessuno venisse negata un’opportunità di occupazione, purchè fosse disposto a “fare qualcosa“, oggi i canali di accesso al lavoro terziario sono diventati più stretti e selettivi. Nelle attività di servizio avanzato alle imprese la quota dei lavoratori a rischio (a progetto, temporanei, a partita Iva) rappresenta ormai il 22,8% dell’occupazione, il 24,7% nel terziario sociale, il 22,2% nel commercio».
«Tra le professioni più a rischio ci sono: gli operatori dell’industria dello spettacolo (macchinisti, attrezzisti di scena), tra cui l’incidenza dei lavoratori precari è addirittura dell’85%; istruttori, allenatori, atleti (63,1%); registi, direttori artistici, coreografi, pittori, restauratori (48,5%); ricercatori (45,5%); agenti immobiliari e rappresentanti commerciali (39,5%); annunciatori e presentatori radio e tv, tecnici della produzione televisiva e del mondo della comunicazione (37,8%)», conclude il Censis.


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