Volontariato

Censimento Istat, per il non profit un’occasione da non perdere

Per il coordinatore dell’Osservatorio sull’Economia Sociale del Cnel «il non profit si deve dotare di strumenti di misurazione dell'impatto sociale che saprà creare», dopo di che, «anche la politica sarà costretta ad aprire gli occhi»

di Redazione

Gian Paolo Gualaccini, coordinatore dell’Osservatorio sull’Economia Sociale del Cnel, usa la metafora del bicchiere per commentare i dati del censimento istat sul non profit: «La si può vedere in due modi, io tenderei a valorizzare il bicchiere mezzo piano, ma certo c’è anche la metà vuota come ha evidenziato Bonacina nel suo editoriale».

Gian Paolo Gualaccini


Partiamo dalle note positive…
La principale è che per la prima volta e non era scontato che lo facesse, l’Istat nei suoi documenti di presentazione del rapporto non solo dice che questo è l’unico settore che vanta segni ovunque positivi, ma soprattutto ci dice che il non profit, al pari dell’impresa for profit e della pubblica amministrazione, è parte integrante del sistema produttivo italiano. E questa è una presa di coscienza che dovrà essere valorizzata al massimo.

Magari modificando il codice civile…
Certo, questa è una battaglia sacrosanta. L’impresa sociale, naturalmente non come la concepisce attualmente la legge italiana, può essere quello che sul finire degli anni 90 è stata la sussidiarietà in Costituzione. Un principio cardine che è diventata una battaglia culturale vinta grazie al sostegno deciso e compatto di tutto il Terzo settore.

La debolezza della rappresentanza del non profit in questo senso non rischia di essere una zavorra?
Come emerge dalla fotografia dell’Istat il nostro è un settore molto vitale, molto variegato, con un corpo in grande espansione, ma con una testa piccola. E non è detto che questo sia negativo. In tutta sincerità io non credo che anche in futuro nascerà il sindacato o la confindurstria del non profit. E penso anche che sia giusto così.

Rimane però una questione: come far capire a una politica sempre meno consapevole (vedi casi iva, imu, 5 per mille, codice civile, servizio civile, lavoro in carcere…) che il non profit può essere davvero una leva di sviluppo e non una semplice stampella?
Il primo appunto lo faccio a noi del non profit: dobbiamo imparare a lavorare – lo si diceva prima – nell’ottica dell’impresa sociale, ovvero concependoci in sistema con profit e pubblico e non come qualcosa di estraneo o alternativo. E per farlo occorre che impariamo a misurare e a far conoscere l’impatto sociale che produciamo. E guardate che non lo dico io, ma ce lo chiede l’Europa con Barnier, e lo pretendono in casa loro anche due leader mondiali come Cameron e Obama. Nel social value act del primo infatti si stabilisce che le imprese che prendono commesse dal pubblico devono dimostrare anche l’impatto sociale che la loro attività produce. Stesso principio che il presidente americano ha fatto suo con la legislazione sui Social impact bond, ma anche nel piano di bilancio 2014. (non certo facille per un Paese in deficit come gli Usa). Una volta portato a termine questo passaggio che da parte nostra significa smarcasi dal giogo del lavoro per bandi o attraverso convenzioni sottopagate io credo che per sopravvivere anche la nostra politica dovrà aprire gli occhi: come emerge dal rapporto del nostro istituto di statistica su alcuni temi (assistenza, cura, socio-sanitario, ma non solo) il non profit, rispetto a PA e profit, è  decisamente migliore. E questa ormai è un’evidenza.


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