Europee, i candidati sociali
Cecilia Strada (Pd): «Il mio impegno sarà per la pace e per i diritti dei più deboli»
Candidata per il Partito Democratico alle elezioni europee nella circoscrizione Nord Ovest. Sociologa, si occupa da sempre di diritti umani: «Voglio contribuire alla risoluzione dei problemi della persone prima che questi diventino emergenze». E sulla pace: «negoziati e diplomazia sono la strada da percorrere»
di Anna Spena
Candidata per il Pd alle elezioni europee nella circoscrizione Nord Ovest, laureata in Sociologia. Cecilia Strada si occupa da sempre di diritti umani. Volontaria di Emergency dalla sua fondazione nel 1994, ha lavorato nell’Ufficio umanitario e poi come presidente fino al 2017. Dal 2018 si occupa prevalentemente della crisi umanitaria del Mediterraneo centrale, con attività culturali a terra e missioni di salvataggio in mare con ResQ.
Perché ha deciso di candidarsi alle europee?
È la storia di tutta la mia vita. È la storia del mio impegno sociale che alla fine si conclude sempre con una richiesta alla politica: “fate la vostra parte”. Quindi per anni ho fatto la mia parte sul campo, nei Paesi in guerra, sulle navi umanitarie. Sono tornata, ho raccontato. Mi sono candidata perché era arrivato il momento di mettermi “dall’altra parte”. Di essere la persona che prova a contribuire alla risoluzione dei problemi della gente prima che questi diventino emergenze. Continuerò a lavorare sempre per i diritti umani, a cambiare sarà il “come” lo farò.
Nel documento di programma del Pd sulle elezioni europee “L’Europa che vogliamo” si legge: “Manteniamo fermo il nostro sostegno incondizionato all’Ucraina, fornendo assistenza politica, umanitaria, finanziaria e militare per tutto il tempo necessario”. Come concilia la sua posizione personale sull’invio delle armi con il programma Pd?
Il Pd è una casa plurale che dà valore alla diversità delle idee. Questa mi sembra una cosa sinceramente molto bella. Personalmente se mi trovassi in una stanza con dieci Cecilia Strada avrei paura (sorride ndr). Chiederei di aprire la porta e far entrare altre persone. È da dialoghi e pensieri differenti che vengono fuori le sintesi migliori. Io ho le mie idee e si può votare secondo coscienza e non in base alla linea del partito. Il tema vero è continuare a ragionare insieme per trovare soluzioni. Nello specifico dell’Ucraina, il Paese è ancora in guerra, le vittime sono tante. Il Pd è una realtà politica che da sempre sostiene, e continua a sostenere, che bisogna fare ogni sforzo possibile per i negoziati. Io darò il mio contributo per arrivare ad una pace giusta, e soprattutto su come investire nella pace del futuro.
Come?
La domanda che dovremmo porci è: “come facciamo a prevenire la prossima guerra?”. Non possiamo continuare a credere che le guerre siano un fatto inevitabile della storia e ragionare soltanto su come riempire gli arsenali. Perciò bisogna lavorare sui progetti di pace. Io ho aderito all’appello di Trieste per la pace. “La guerra”, dice parte l’appello, “non è mai stata la soluzione dei conflitti e delle tensioni tra popoli e nazioni, ma ha sempre causato morte e sofferenza per tutti e in particolare per i più deboli, che pagano e pagheranno sempre il prezzo più alto. La guerra è una sconfitta del diritto e della comunità internazionale e dell’umanità intera. I conflitti imperversano alle nostre porte, in Ucraina, in Terra Santa e in tanti altri posti del mondo, con armi sempre più potenti e dagli effetti devastanti per le persone e per l’ambiente. In questa ora così terribile per il mondo sentiamo di essere chiamati a una conversione profonda e a dare un giudizio comune e chiaro: la Pace è il dovere della politica. Un ostinato e creativo dovere”. Mi piacciono molto queste parole “ostinato e creativo dovere”. Di fatto si chiede ai candidati europei un impegno per la pace che io voglio prendermi. Non ho la soluzione per la costruzione della pace. Ma so che lo sforzo maggiore deve sempre essere diplomatico, non militare. Perché quando cadono le bombe è già troppo tardi per la popolazione. Poi è ovvio che tra l’aggredito e l’aggressore si sta sempre con l’aggredito, questo è fuori discussione. Ma la pace giusta si fa con i negoziati. E allora qualcuno potrebbe dire “non si tratta con i tiranni”. Eppure i negoziati di pace si fanno con i nemici, non con gli amici. Quindi lo ripeto: per arrivare ad una pace giusta in Ucraina, e non ad una resa incondizionata, serve negoziare. Però vorrei anche sottolineare un’altra cosa: il sostegno militare all’Ucraina era solo una parte dell’aiuto che era stato promesso. Molti dei fondi stanziati a livello europeo non sono stati utilizzati. Dovremmo chiederci rispetto all’Ucraina “cosa potremmo fare di più?”. E la risposta non riguarda necessariamente solo l’invio di armi. Io dico di parlare di pace, di parlare di disarmo nucleare, di economie di pace, di corpi civili di pace europei, parliamo di diplomazia europea, parliamo di politica estera. Tutti temi che ci sono nel programma del Pd. Perché di come si fa la guerra, e di come si comprano le armi si parla già molto. Di come si costruisce la pace, mai.
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Il Patto migrazione e asilo è il risultato di quasi quattro anni di discussioni. C’è qualcosa che secondo lei si può salvare di questo accordo?
No. Il Pd infatti non l’ha votato. È stato definito un passo storico. Storico sì, ma nella direzione sbagliata della storia. È un accordo che non serve a nessuno e porterà solo alla violazione dei diritti umani. Neanche tutelerà l’Italia e gli altri Paesi di primo approdo. Per cui è un Patto che non dovrebbe piacere nemmeno agli elettori di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Il fenomeno migratorio non si può fermare, si può al massimo gestire ed è compito della politica. Ma se le istituzioni pensano che basti alzare i muri o esternalizzare le frontiere, si finisce per ammazzare le persone. Così l’Europa perde anche se stessa ed ogni valore su cui si fonda, o si dovrebbe fondare, lo stare insieme.
Se dovesse essere eletta come proverà a spiegare che i migranti, compresi quelli economici, per l’Europa sono una grande risorsa?
Nel 2045 in Italia avremo un rapporto di persone che lavorano e persone che non lavorano di 1 a 1. Questo è un Paese che non sta più in piedi e rischia di collassare su se stesso se non avremo compagni di viaggio con la voglia di fare un pezzo di strada con noi. Il punto vero è: come le facciamo arrivare queste persone? Disperate? Con i corpi che raccontano delle violenze subite? A piedi lungo la Rotta Balcanica? Le facciamo arrivare dopo essere state stuprate? Gli facciamo rischiare la vita lungo la Rotta del Mediterraneo Centrale? Noi vogliamo canali d’ingresso sicuri e legali. Vogliamo dei decreti flussi che funzionino. Tutti i problemi di insicurezza sui territori si generano solo quando teniamo le persone in condizione di irregolarità.
Qualche giorno fa ha visitato il Cpr di via Corelli a Milano. É noto il degrado della struttura, di questa come di tante altre. Come si ricostruisce un modello di accoglienza di senso?
Quel Cpr è un buco nero per i diritti umani. Lo strumento Cpr ha molte criticità, a partire dal fatto che le persone – in assenza di accordi di estradizione con i Paesi in cui dovrebbero avvenire molti rimpatri – finiscono sospese in un limbo di degrado. Quando ne escono, ovviamente, la loro situazione è peggiorata da ogni punto di vista, compreso il disagio psichico. Rispetto ai modelli di accoglienza credo che quello dell’ex sprar funzionasse bene. Un modello diffuso che lavorava su numeri piccoli. Ma ormai i decreti sicurezza l’hanno smantellato.
Questa intervista fa parte di una serie sui candidati sociali alle elezioni europee, di cui sono già uscite quelle a Humberto Insolera (Pd), a Rita Bernardini (SuE), a Bruno Molea (FI), a Ugo Biggeri (M5s), a Antonio Mumolo (Pd) a Luca Jahier (Pd), Annalisa Corrado (Pd), e Shady Alizadeh (Pd).
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