Mondo

Cecenia, black out della società civile

L'editoriale/ Il silenzio della società civile, la sua mancata reattività, la sua incapacità a mobilitarsi è una cosa che deve sinceramente far pensare

di Giuseppe Frangi

Ha ragione Giulio Albanese a richiamare, nell?articolo pubblicato su questo numero di Vita, il fatto che la solidarietà non è un sentimento, ma un impegno ?solido?, come suggerisce del resto la parola. Ha ragione, perché in questi ultimi tempi abbiamo la sensazione che questa solidità si sia un po? vanificata. Prendiamo il caso della giornalista russa Anna Politkovskaya, uccisa da un killer sull?ascensore della sua casa alla periferia di Mosca. è un delitto di una ferocia e di una gravità inaudite: toglie di mezzo una delle poche voci che hanno indagato e raccontato quell?angolo tragico del nostro pianeta che risponde al nome di Cecenia. Quei proiettili sono perciò un attentato terrificante non solo al residuo di libertà di stampa ma anche alle ancor più residuali speranze di un popolo oppresso materialmente e psicologicamente.

La Politkovskaya non era mossa da ragioni ideologiche. Scavava tra immense difficoltà, inseguendo gli indizi, mettendo insieme i fatti con l?asciuttezza di una cronista d?altri tempi. Non sopportava le menzogne, anche fosse solo per deontologia professionale. E per non aver taciuto su una di queste menzogne (le torture di cui sarebbero stati responsabili gli uomini del premier ceceno, il filo russo Ramzan Kadyrov) ha pagato con la vita.

La Cecenia (come del resto anche la Corea del Nord, salita per altri motivi alla ribalta delle cronache nei giorni seguenti) non gode di buona stampa. Non solo perché in Cecenia i giornalisti e gli osservatori esterni praticamente non mettono più piede, ma anche perché il destino di questo Paese non suscita, per dirla con Albanese, una solidarietà degna di questo nome. Il silenzio del palazzo della politica davanti un fatto così potentemente simbolico poteva essere messo nel conto: il centrodestra ha sempre vantato i propri buoni rapporti con Putin sino a sdoganarlo internazionalmente e ad aprirgli le porte della Nato. Nel centrosinistra resiste invece un atteggiamento giustificazionista nei riguardi di Mosca.

Invece il silenzio della società civile, la sua mancata reattività, la sua incapacità a mobilitarsi è una cosa che deve sinceramente far pensare.
Negli stessi giorni l?appello lanciato da Savino Pezzotta perché dopo anni di tagli vergognosi si tornasse a investire e a credere nel ruolo strategico della cooperazione, faceva fatica a trovare adesioni e a creare mobilitazioni. è una sorta di inerzia che ha fatto morire sul nascere anche l?ipotesi di una marcia per la pace, inizialmente pensata per il Libano e che alla fine si è ridotta a un composto e abbastanza innocuo convegno come tanti.

Come spiegarsi questa afasia? Non vorremmo che si tornasse al vecchio vizio di farsi dettare l?agenda dal circo mediatico. E ancor meno vorremmo che l?ascesa al potere di personaggi amici, contigui alla società civile e del tutto stimabili, inducesse a credere finito il proprio compito. Non è così. E la cronaca lo dimostra, drammaticamente, ad ogni pie? sospinto: il caso di Anna Politkovskaya è lì a gridarcelo. Come dice Stefano Zamagni nell?intervista che pubblichiamo, se la società civile perde la propria capacità di contestazione del potere viene meno alla propria ragion d?essere. La tranquillità delle coscienze, della nostra coscienza in particolare, è il più insidioso pericolo da cui guardarsi. E contro cui reagire. Questo giornale è qui per quello.

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