Volontariato
C’è meno Italia nelle guerre del mondo
Dalla Relazione annuale sul commercio di armi emerge che le esportazioni sono calate del 36%, fermandosi a 1658 miliardi; contemporaneamente alcune banche si stanno sfilando da questi affari
Dopo l’abbuffata del 1999, il commercio italiano delle armi si mette a dieta. L’ottima notizia viene dalla Relazione annuale sull’export di armi, introdotta dalla legge 185/90 che, tirando le somme per il 2000, dice che abbiamo esportato materiale militare per 1658 miliardi, il 36% in meno dell’anno precedente.
Secondo la Relazione, redatta dai ministeri dell’Interno, delle Finanze, del Tesoro e degli Esteri, chiusa la parentesi del 1999 – quando una commessa di 1247 miliardi di apparati elettronici per aerei verso gli Emirati Arabi aveva fatto schizzare il valore dell’export a 2596 miliardi – con il 2000 l’Italia torna ai livelli normali, anzi scende lievemente al di sotto della sua media di esportazioni negli ultimi dieci anni (1862 miliardi).
Anche per il 2000 la maggioranza dei destinatari sono tra i cosiddetti Paesi terzi (non dell’Unione europea e non alleati del patto atlantico) ai quali è arrivato materiale per il 68% del valore complessivo. In testa il Sud Africa (con il 30% delle esportazioni), segnalando così una ripresa della vendita verso i Paesi dell’Africa meridionale e centrale: nell’elenco infatti troviamo anche la Nigeria (4,6%). Seconda tra i nostri clienti c’è la Romania (11% dell’export) che tra i Paesi dell’Europa centro orientale prende il posto che nel ’99 era stato della Bulgaria.
Quello orientale negli ultimi anni è uno degli orizzonti più in espansione per l’industria bellica made in Italy. Il relativo calo di tensione tra India e Pakistan ha comportato una ripresa delle esportazioni ai due Paesi che erano state ridotte (ma non completamente sospese) nel 1999 poiché la legge 185/90 vieta la vendita di materiale bellico a nazioni in conflitto. Dall’Italia l’India ha fatto acquisti bellici per circa 149 miliardi, meritandosi un quarto posto nella lista, mentre il Pakistan ha speso 31 miliardi. Tra gli avventori più affezionati ritroviamo la Turchia (5% dell’export), malgrado le proteste di Amnesty International che da anni denuncia l’utilizzo di elicotteri Augusta per le azioni di repressione militare sui villaggi curdi. La legge vieterebbe il commercio di armi con Paesi che violano i diritti umani, ma di fatto si esercita un certo potere discrezionale per la Turchia che, essendo un membro della Nato, è autorizzata ad acquistare armi dai propri alleati.
«Malgrado il buon impianto della legge», commenta Francesco Terreri, esperto dell’Osservatorio sul commercio delle armi dell’Ires di Firenze, «non si è riusciti in questi dieci anni di applicazione a fare in modo che la relazione annuale contenesse assunzioni di responsabilità politica e non solo valutazioni commerciali, e ciò indipendentemente dagli schieramenti di governo che si sono succeduti».
Ma nelle tasche di chi sono andati questi 1658 miliardi di export? La parte del leone l’ha fatta la Agusta con 582 mld (35% del totale dell’esportazione); segue la Marconi Mobile Spa con 215 mld, Finmeccanica con 185 mld, Simmel Difesa con 130 mld e Mid con 93 mld, per citare le prime cinque aziende con i maggiori introiti tra le 43 che hanno partecipato al business. A sostenere le imprese come intermediari ci sono naturalmente le banche. Il Banco di Sicilia ha appoggiato la transazione a favore di Agusta; la Banca di Roma non ha lesinato l’impegno visto che, va detto, è anche proprietaria del gruppo che include il Banco di Sicilia; centinaia di miliardi di questo commercio sono passati poi per Banca commerciale italiana, Credito italiano e Banca nazionale del Lavoro. Mentre Unicredito, coerentemente al suo annuncio dello scorso dicembre di rinunciare a questo tipo di transazioni, segna zero per le nuove autorizzazioni e così sarà presto anche per le sue affiliate.
«Il panorama complessivo è di relativa stabilità», tira le conclusioni Terreri, «anche se nella seconda metà degli anni ’90 c’è stato un incremento delle esportazioni rispetto ai primi anni di applicazioni delle legge, prima cioè che alcuni regolamenti applicativi rendessero i controlli un po’ meno stringenti. Comunque ormai siamo lontani dalla “cuccagna” degli anni ’80, quando le esportazioni arrivarono anche a 4mila miliardi».
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