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«C’è bisogno di una nuova narrazione su migranti e rifugiati»

Giampaolo Silvestri, segretario generale di Fondazione Avsi, in questi giorni a New York per la 71esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite spiega che «solo così si sfugge al ricatto delle derive antitetiche e sterili»

di Giampaolo Silvestri

Portiamo i volti di Cyprian e di Rita al quartier generale dell’Onu per «Migrants and refugees». Questione sulla quale gli Stati membri sono divisi, indecisi, al punto che l’opzione aprire i confini o chiuderli, per l’Economist, starebbe diventando il nuovo political divide internazionale.

Chi sono Cyprian e Rita? Lui, padre di dodici figli, kenyota, è riuscito a far rialzare il suo villaggio, fino a pochi anni fa piegato da fame e colera. Grazie al sostegno a distanza di tante famiglie italiane e a progetti di sviluppo promossi in partnership da soggetti diversi, ha fondato una scuola, organizzato una cooperativa di 700 famiglie e avviato la latteria più importante della regione.

Non è dovuto emigrare per continuare a vivere. Lei è una trentenne congolese, rifugiata in Italia, approdata qui dalla Libia. Grazie a un progetto di Avsi, Caritas e l’impresa Panino giusto, ha imparato i fondamentali della cucina italiana e, dopo un training formativo, ha la possibilità di essere assunta stabilmente.

Raccontare di loro a New York funge da promemoria. In gioco ci sono persone in carne e ossa, non solo statistiche. Cyprian e Rita sono solo due profili che rimandano a milioni di altri. Le migrazioni cambiano le mappe, segnando percorsi faticosi che vanno considerati in tutti i loro tratti. Dai Paesi di origine a quelli di transito e di arrivo servono interventi diversi in ambito educativo, di formazione e lavoro, di cure sanitarie, di accoglienza, di accompagnamento all’autonomia e integrazione, di garanzia della sicurezza, di sviluppo a lungo termine. Ma ci sono due risvolti. Il primo è che questi interventi vanno pensati insieme, perché si sostengono con il concorso di tutti i soggetti. Nessuno può essere scavalcato o fatto fuori, dalle più alte istituzioni alle più umili espressioni della società civile.

Il secondo aspetto è che le azioni umanitarie e di cooperazione allo sviluppo si intrecciano sempre anche a un lavoro culturale. Perché come sottolinea l’Onu c’è bisogno di una nuova narrativa per le migrazioni. Solo così si sfugge al ricatto delle derive antitetiche e sterili: «Fuori tutti i migranti, sono un problema» e, all’estremo opposto, «accogliamoli tutti, sono una risorsa».

In Africa il nostro staff segnala l’importanza di «decostruire il mito» per cui l’Europa sarebbe il paradiso. In troppi partono illusi e, dopo aver vissuto come fantasmi fuori legge, tornano umiliati e affamati. Allo stesso modo qui, a casa nostra, c’è bisogno di una rinnovata conoscenza reciproca: chi sono, da dove vengono e perché. Cosa comporta vivere in società sempre più cosmopolite, diversi e insieme. Ma questo lavoro culturale, stoffa di ogni intervento umanitario, nasce solo all’interno di relazioni tra persone, non da teorie. È dalla cura di quei legami interpersonali che forse bisogna ripartire.

da il Corriere della Sera 21 Set 2016

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