Famiglia
Castelpoto, la scuola a sei nazioni
Accoglienza, rigenerazione, innovazione: così il piccolo comune dell'entroterra campano sta combattendo lo spopolamento e ha salvato la scuola. Anzi l'ha potenziata con il tempo pieno. Incontro con il primo cittadino Vito Fusco che oltre al passato ci fa anche assaggiare la Castelpoto del prossimo futuro. Sempre nel nome della salsiccia rossa, rigorosamente Slow Food
Siamo alla settima puntata. I sindaci che abbiamo incontrato dal 10 dicembre ad oggi hanno sicuramente in comune tre cose: determinazione a restare nei loro piccoli comuni di nascita; forte senso di appartenenza; visione politica in chiave di innovazione sociale ma nel rispetto del tessuto connettivo preesistente. La rubrica Piccoli comuni, grandi Sindaci continua il suo viaggio nell'Italia che non si vede spesso nelle prime pagine del media.
Castrum Potonis (da cui Castelpoto), significherebbe "castello di Poto", figlio di re Adelchi, vissuto nel IX secolo e imparentato con il più illustre principe di Benevento. Ma da queste parti Castelpoto fa rima con Slow Food e con il presidio che qui è "regina": la salsiccia rossa.
Sembra che storicamente a Castelpoto l’allevamento suino sia stato praticato dal porcaio del duca e pressappoco quella sembrerebbe anche la data di nascita della salsiccia rossa. Castrum Potonis, pur risalendo all’epoca romano-sannitica si sviluppò maggiormente sotto la dominazione longobarda e normanna. Ancora oggi molte famiglie allevano in proprio il maiale producendo, secondo ricette gelosamente tramandate, questa eccellenza gastronomica che, abbinata all'aglianico sannita, vale tutto il viaggio fino a Castelpoto. Vito Fusco è dinamico ma meticoloso. Abito e camicia perfetti, sindaco del suo paese pare esserci nato, per il rispetto con il quale parla anche della singola pietra del suo piccolo comune.
Castelpoto, entroterra campano, terra longobarda ma anche comune di “cintura” per la Snai, posizione un po’ ostica e penalizzante?
Castelpoto era un comune in declino con forti dinamiche di invecchiamento della popolazione ed è anche terra di emigrazione. Noi chiaramente ci siamo posti dinanzi a una sfida molto complessa, che è quella di invertire questo trend che purtroppo è comune a tante realtà del mezzogiorno d'Italia ma anche del centro nord. Castelpoto non è tecnicamente un'area interna anche se ne ha tutti gli indicatori.
Circa 1.200 abitanti, negli ultimi dieci anni ne avete persi 150: cosa state facendo per invertire la tendenza?
Abbiamo lanciato una sfida difficile, complessa partendo da un'analisi territoriale e da fattori endogeni sui quali abbiamo cercato di incidere. La lotta all’isolamento causato dai collegamenti stradali pessimi era un problema che ci ha lasciati per anni ai margini. E su tutto la prima grande sfida: l’accoglienza, cominciata nel contesto sfavorevole del 2017. In quel periodo noi abbiamo avuto il coraggio di andare contro corrente, aderendo al modello di accoglienza diffusa proposto da Anci, il Sistema Accoglienza Integrazione-Sai (prima SPRAR, ndr). Posso dire che a distanza di cinque anni è stata una scelta sicuramente vincente perché è stato un progetto che è diventato una “buona pratica” e ha funzionato sotto tanti i punti di vista.
Ce ne dica tre…
Primo, ben tre famiglie appena uscite dal progetto sono rimaste a vivere a Castelpoto. E stiamo parlando di famiglie che hanno dato al nostro piccolo Comune dieci bambini. Secondo, intorno al Sai si è costruito un bel gruppo di lavoro di professionalità del nostro paese che negli anni si è affiatato, formato da giovani che grazie al lavoro nel progetto non sono andati via. E molte attività commerciali hanno avuto un nuovo impulso economico. Terzo, il Sai ha incrociato una sinergia con la popolazione locale creando benefici al resto dei residenti grazie all’attivazione di laboratori e soprattutto ci ha dato la possibilità di non perdere la scuola, anzi aumentarne l’offerta.
Grazie ai bambini che sono arrivati?
Sì, abbiamo lanciato una piccola sfida. Da quest'anno alla primaria non abbiamo più la pluriclasse ed è ritornato, dopo circa 20 anni, il tempo pieno con la cucina interna alla scuola. Ed è una meraviglia avere sei nazionalità diverse in un’unica scuola di un piccolo comune dell’entroterra. Ma soprattutto è una meraviglia avere la certezza della sopravvivenza della scuola. E speriamo di riprendere il progetto “primavera” per bambini dai 18 ai 36 mesi che si è interrotto durante la pandemia.
E si smonta anche l’idea del borgo isola felice in cui il tempo pieno non serve alle famiglie…
Esatto, il piccolo comune deve essere visto e vissuto come un comune normale, dove si può avere un’elevata qualità della vita relazionale e di comunità, ma anche un’elevata qualità dei servizi. Le bucoliche non servono allo sviluppo e all’innovazione. Castelpoto, insieme ad altri piccoli comuni italiani, può diventare luogo per abitare il futuro, ma per farlo deve essere terra di innovazione.
E voi l’innovazione come l’avete fatta, scuola a parte?
Innanzitutto con una bella progettualità sul bando Borghi per il quale abbiamo puntato sulla rigenerazione culturale e sociale del borgo longobardo di Castelpoto che ha una parola chiave: “costruiamo”, ovvero un percorso partecipato che ha incluso anche i castelpotani che oggi risiedono altrove, le energie intellettuali, il sistema istituzionale e la comunità del progetto Sai. Ci sono tante piccole azioni che, messe insieme in una strategia integrata, possono fare la differenza perché la progettazione a spot non serve alle piccole comunità che vanno guardate nel loro insieme.
Quindi in un progetto avete messo un concept territoriale?
Esatto. Il bando stesso è stato innovativo nel metodo perché la scrittura del progetto è stata oggetto di partecipazione dei cittadini in quello che abbiamo chiamato “incubatore di comunità”. Abbiamo incontrato i cittadini, abbiamo coinvolto le persone giovani e meno giovani, quelli che sono fuori per motivi di studio e di lavoro, ci siamo visti online quando non abbiamo potuto fisicamente, abbiamo raccolto idee e abbiamo in qualche modo cementato il senso di appartenenza anche nei castelpotani che sono fuori e che si collegavano per dare il loro contributo da Torino, da Milano, da Bologna, da Zurigo. Il punto di caduta della progettualità è il borgo medievale di Castelpoto: restauro della torre civica, catalogazione dell’archivio storico, digitalizzazione, creazione dei prodotti a marchio denominazione comunale d'origine-Deco e denominazione d’Origine Territoriale Dot. E ci saranno anche le residenze d’artista che verranno a Castelpoto a lavorare per un periodo di tempo, vista anche l’importanza che ormai sta assumendo S(t)uoni, la nostra rassegna culturale.
E il taxi di comunità…
Chi vuole venire a Castelpoto deve poterlo fare anche se non ha un’auto, quindi abbiamo previsto il taxi di comunità soprattutto per garantire collegamenti con gli aeroporti ad orari in cui i mezzi pubblici non raggiungono più le aree interne.
Ultima nata è la Cooperativa di comunità: “Castelpotare”. Una declinazione all’infinito di Castelpoto…
La pandemia ci aveva bloccato il cammino, è stata la meta forse più sofferta! Abbiamo molto lavoro da fare con questi ragazzi coraggiosi, sia quelli nati qui che quelli venuti da fuori, che hanno deciso di restare qui e che hanno deciso di lavorare in sinergia con gli obiettivi dell'amministrazione, partendo da quello più importante: non lasciare nessuno indietro.
Sindaco perché lei non è andato via e ha messo su famiglia qui?
Perché mi piacciono le sfide. L’ho sentita una scelta normale. Papà è stato sindaco di Castelpoto 40 anni prima di me, ora purtroppo non c’è più. Attraverso i suoi occhi, i suoi gesti, le sue scelte e i suoi sacrifici io ho imparato ad amare la politica come mezzo di cambiamento dei luoghi che viviamo, soprattutto attraverso la lotta alle disuguaglianze. E la peggiore disuguaglianza oggi è quella territoriale che ingloba tutte le altre, che con i sindaci del recovery stiamo cercando di combattere con ogni mezzo democratico possibile. Per fortuna mia moglie ha condiviso la mia scelta, pur facendo il medico fuori Castelpoto. Oggi le nostre tre bimbe vivono in un piccolo comune dell’entroterra campano, ma a scuola studiano e giocano con coetanei di cinque nazionalità diverse. Nei piccoli comuni è possibile connettersi con il mondo sia grazie al digitale che grazie al “relazionale” fatto di accoglienza gestita con intelligenza politica.
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