Volontariato

Cassazione: Immigrati, prevalga il ricongiungimento familiare

La Suprema Corte si pronuncia su un caso del '98: Un immigrato che sia già in possesso del permesso di soggiorno ha diritto ad ottenere il visto d'ingresso in Italia

di Riccardo Bonacina

Un immigrato che sia già in possesso del permesso di soggiorno ha diritto ad ottenere il visto d’ingresso in Italia. A dare il via libera, in nome del “diritto all’unità familiare”, è la Cassazione che oggi, con la sentenza 1714, ribaltando la pronuncia dei giudici di appello, ha accolto il ricorso di Maitnate H., una marocchina di 53 anni, che, pur avendo ottenuto il permesso di soggiorno, si era vista rifiutare il visto d’ingresso in Italia dall’ambasciata italiana a Rabat.
I fatti analizzati dalla Suprema corte risalgono al ’98, quando Maitnate H., il 23 maggio, ottenne “il permesso di soggiorno per ricongiungersi con il figlio maggiorenne che lavora in Italia”. A distanza di un anno, però, la marocchina chiedeva il ricongiungimento familiare con la figlia minore residente in Marocco appellandosi all’art. 29 del decreto legislativo 98 n. 286. Ma benché la questura di Bologna avesse rilasciato il nullaosta, l’ambasciata le negava il visto d’ingresso in Italia. Di qui l’immediato ricorso al Tribunale di Bologna da parte della donna che, con sentenza del 25 ottobre ’99, si vedeva rilasciare il visto d’ingresso. Sentenziava il Tribunale che “il rifiuto del visto era ingiustificato perché chi ha il permesso di soggiorno per motivi familiari è posto dalla legge nelle stesse condizioni del titolare del permesso, in quanto come lui ha accesso ai servizi assistenziali, ai corsi di studio, alle liste di collocamento e può svolgere lavoro subordinato e autonomo. In ogni caso -aggiungeva il Tribunale- devono prevalere il diritto all’unità familiare e il superiore interesse del minore”.
Una sentenza a favore dell’immigrata, che aveva suscitato la reazione del ministero dell’Interno che sosteneva ci fosse stata una sbagliata interpretazione della legge. E, in secondo grado, la Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 23 febbraio 2000, negava il visto d’ingresso in Italia alla marocchina. I giudici di merito sentenziavano che la donna non poteva avere il visto perché “non era venuta in Italia spinta dalla necessità o per motivi politici e religiosi, ma per vivere in casa del figlio maggiorenne dal quale era mantenuta e, per ottenere il permesso, aveva occultato alle autorità italiane di avere una figlia minore, abbandonata da sola in Marocco”. In sostanza, per i giudici bolognesi, la donna chiedeva ora il visto “non per necessita’ ma per puro capriccio”.
Si è opposta fino in Cassazione, la marocchina. Ed ora la Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha confermato la sentenza pronunciata in primo grado dal Tribunale di Bologna, motivando: “L’argomentazione della Corte d’ Appello di Bologna è in contrasto con il citato art. 28 perché, lungi dal prendere in considerazione con carattere di priorità l’interesse della minore, si sofferma sulla condotta materna, mentre avrebbe dovuto valutare se per la donna ormai sola in Marocco fosse preferibile rimanere in quel paese o ricongiungersi con i famigliari soggiornanti in Italia”.

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