Libia

Caso Almasri, Mohammed: «Vi racconto le torture di quelle carceri, dove ho perso i denti per le botte»

La testimonianza di un ragazzo maliano che ha trascorso tre mesi nelle prigione di Sabha, a 700 chilometri da Tripoli. «Mi picchiavano con il calcio di un fucile. Ho visto gente costretta a correre con i piedi che sanguinavano». Mohammed oggi vive a Benevento

di Alessio Nisi

Libia

Sono trascorsi molti anni da quando nel 2011 è stato rinchiuso in un carcere della Libia, ma, nonostante sia passato più di un decennio, i suoi ricordi sono ancora vividi. Dal Mali, dove è nato nel 1995, Mohammed ha attraversato le rotte della migrazione con il sogno di una vita diversa. Durante il viaggio i soldi che doveva consegnare ai suoi aguzzini sono diventati improvvisamente pochi.

Prima è stato venduto ad un commerciante locale che, in cambio di un alloggio in un garage e del cibo appena sufficiente a sopravvivere, lo ha costretto a lavorare a costo zero. «Sono arrivato in Libia nel 2011», racconta durante una pausa di lavoro Mohammed, che oggi è sposato e vive in Italia, a Benevento, «e ho passato dei momenti veramente brutti». E non sono stati solo i tre mesi nelle carceri.

Capo della polizia giudiziaria libica

Le carceri? Sì, proprio le carceri del generale Nijeem Osama Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, direttore di diverse prigioni libiche note per le loro condizioni disumane, la cui liberazione ha scatenato un caso politico e giudiziario fino all’iscrizione nel registro degli indagati per i vertici di governo.

Dormivo in un garage e lavoravo gratis

«Quello che avevo pagato per il viaggio doveva portarmi a Tripoli», racconta, «ma sono stato venduto ad un proprietario di un garage a Sabha, dove ho lavorato gratuitamente come carrozziere, praticamente senza poter uscire. Ero uno schiavo». A 700 chilometri dalla capitale, solo, prosegue Mohammed, «lavoravo dalla mattina alla sera, senza uno stipendio. Che forse è peggio che essere picchiato. Non potevo uscire, ma anche se avessi potuto non sapevo neanche dove andare».

Solo acqua, poi la fuga

Un incubo che è durato un anno e mezzo. «Un giorno questa persona mi ha picchiato con violenza e per due giorni non mi ha dato da mangiare. Solo acqua». La sua colpa? «Avevo guardato in modo poco rispettoso la moglie». La situazione è andata via via peggiorando. «Ho messo da parte la paura, era il 2012 in Libia c’erano le milizie, bisognava stare attenti a non farsi catturare». Ma non è stato fortunato e, come ha tentato la fuga, è stato fermato e rinchiuso nel carcere di Sabha.

Picchiato con il calcio del fucile

Mohammed davanti a se ha visto violenze di ogni genere ai danni dei detenuti e perfino torture in diretta telefonica con le famiglie rimaste nei villaggi, filmate e inviate per estorcere altri soldi. «Eravamo in tanti, stipati in una sorta di sottosuolo. La mattina», ricorda, «chiamavano le persone, chiedendo loro di contattare i familiari per pagare una sorta di riscatto ed essere liberate».

Colpiti sulla pianta del piede e costretti a correre

Mohammed non aveva i genitori, e la sorella maggiore non aveva redditi. «Quando non avevi nessuno da chiamare ti picchiavano e ti torturavano. Un giorno per le botte ero messo così male che mi hanno portato in ospedale». Le torture? «Mi hanno picchiato con il calcio del Kalashnikov. Ho visto altri essere torturati, colpiti sulla pianta del piede fino a sanguinare e poi costretti a correre nudi. Questo almeno a me l’hanno risparmiato».

«Approfittando di un trasferimento in ospedale», ricorda, «sono riuscito a scappare. Il resto lo raccontano i volontari del Progetto Sai di Sassinoro: Mohammed è arrivato in Italia con un barcone insieme a Fanta, donna che poi ha sposato e da cui ha avuto 2 figli. È stato accolto prima in Sicilia e poi al Sai di Sassinoro.

a sinistra Mohammed

I denti persi per le botte

«Prima di tutto», spiega Sara Luciano coordinatrice del progetto Sai di Sassinoro, «ha imparato a leggere e scrivere partendo dal suo nome e cognome. Ha frequentato la scuola prendendo la certificazione a2. Ha fatto corso di mulettista e primo ingresso in edilizia».

Gli operatori sono anche riusciti a fargli avere «una protesi mobile al posto dei denti, persi a causa delle botte subite in Libia. Ha iniziato a lavorare con un azienda edile al nord mentre la moglie ha iniziato a lavorare come badante a Sassinoro. I bambini ora vanno a scuola e dopo la prima casa in affitto, ora stanno acquistando una casa in paese».

In apertura e nel testo foto di progetto Sai di Sassinoro

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