Sanità territoriale

Case di comunità, meno del 3% è attiva con medici e infermieri

Sono le strutture sociosanitarie alle quali la riforma della sanità territoriale affida il compito di fare da cerniera fra la popolazione e il sistema assistenziale pubblico. A poco più di un anno dal termine fissato per l’apertura, soltanto 46 su 1717 offrono piena operatività. Il dato, preoccupante, è contenuto nell’ultimo report dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali

di Francesco Dente

Meno del 3%. Sono soltanto 46 su 1.717 le Case di comunità che offrono tutti i servizi previsti dalla normativa e che al momento, soprattutto, possono contare sulla presenza di medici e di infermieri. A poco più di un anno da giugno 2026, termine fissato per l’apertura, si fa in salita la strada per la piena operatività delle strutture sociosanitarie alle quali la riforma della sanità territoriale affida il compito di fare da cerniera fra la popolazione, specie quella affetta da cronicità, e il sistema assistenziale pubblico. Il dato, preoccupante, è contenuto nell’ultimo report dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) sull’attuazione del decreto ministeriale 77/2022 che ha ridisegnato il modello e gli standard di sviluppo delle 127 aziende sanitarie locali e dei 568 distretti sociosanitari distribuiti lungo la penisola.

Il monitoraggio è particolarmente importante perché fa il punto sull’attivazione e sul funzionamento delle strutture, con un focus sugli standard organizzativi, anziché limitarsi a certificare il semplice completamento dei lavori finanziati con le risorse comunitarie del Pnrr. Prospetta, in estrema sintesi, il rischio che questi snodi della assistenza di prossimità con poco personale si rivelino delle case fantasma.

L’Agenas, in particolare, ha fotografato anche lo stato dell’arte degli Ospedali di comunità (Odc) e delle Centrali operative territoriali (Cot), le strutture chiamate a svolgere la funzione di coordinamento della presa in carico della persona e di raccordo tra i servizi socio-sanitari e i professionisti. Nel primo caso la situazione, purtroppo, non è meno allarmante di quella delle Case di comunità (solo 124 ospedali su 568 previsti hanno attivato almeno un servizio). Nel secondo è più rassicurante, per fortuna. Le Centrali pienamente funzionanti e certificate sono infatti ben 642 sui 650 da attivare in totale.

Case di comunità complete solo in nove regioni

Le 46 Case di comunità che al 20 dicembre 2024 dispongono del personale medico e infermieristico e che risultano dotate dei servizi obbligatori, dalla Porta unica di accesso al punto prelievi per citarne alcuni, sono presenti solamente in nove regioni su 20. Al primo posto l’Emilia Romagna con 13 strutture “complete”, seguita da Lombardia (10) e Lazio (8). Il quadro nazionale non migliora se si prendono in esame le Case con tutti i servizi ma senza medici e infermieri (118 su 1.717 sedi), oppure con la presenza “dichiarata attiva” di infermieri (122 strutture) o di medici (158).

L’indagine ricorda che in base al decreto 77/2022 il servizio medico deve essere assicurato per 24 ore al giorno per 7 giorni a settimana nelle Case di comunità cosiddette “hub” e per 12 ore al giorno per 6 giorni a settimana nelle Case “spoke”. La presenza infermieristica invece è di 12 ore giornaliere per 7 giorni a settimana nelle “hub” e di 12 ore al giorno per 6 giorni settimanali per le “spoke”. Sono ben 485, poco meno di un terzo del totale, le strutture polivalenti che offrono almeno un servizio attivo.

Servizi obbligatori e facoltativi

Scendendo nel dettaglio delle prestazioni offerte, la fotografia appare ancor più in bianco e nero. Su circa 500 Case che, come visto, offrono almeno un servizio obbligatorio, superano il numero di 400 quelle che garantiscono cure primarie attraverso équipe multiprofessionali, servizi di assistenza domiciliare, specialistica ambulatoriale, sistema integrato di prenotazione collegato al Cup, integrazione con i servizi sociali e punto prelievo. Solo 311 strutture offrono invece servizi infermieristici.

I servizi obbligatori presenti nelle strutture assimilabili a Case di Comunità suddivise per area geografica.

Lo scenario se fa più fosco se si prendono in esame la partecipazione della comunità e la valorizzazione della coproduzione, cioè il coinvolgimento del non profit, attivato solo da 241 strutture e la presenza del Punto unico di accesso (Pua) presente in 260 Case di comunità.

Ma è guardando alle differenze territoriali che i ritardi appaiono, se possibile, più drammatici. Basti pensare che metà dei Pua complessivi sono presenti in Lombardia (129). I servizi di assistenza domiciliare sono assicurati da 313 strutture del Nord, 86 del Centro e solo 15 del Sud. Il partenariato col terzo settore è una realtà solo in due Case di comunità del Mezzogiorno contro 200 del Settentrione.

Il quadro generale non muta quando si punta il faro su attività e prestazioni come programmi di screening, vaccinazioni, consultori, servizi per la salute mentale degli adulti e dei minori. I dati più bassi in assoluto sono relativi alla medicina sportiva, presente solo in 66 centri, e ai servizi per le dipendenze patologiche (116). Su 1.717 Case di comunità previste. È il caso di ricordarlo.

La fotografia è di Sasun Bughdaryan su Unsplash

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