Non profit
Case delle comunità, non metteteci solo la sanità
Il Coronavirus ha mostrato i limiti di un modello centrato tutto sugli ospedali, facendoci riscoprire la medicina di territorio e il valore della prossimità. Il Pnrr stanzia 2 miliardi per attivare 1.288 Case della Comunità. Ma se il modello resta quello di "avvicinare" le visite specialistiche, l'approccio olistico al benessere sarà ancora una chimera e avremo sprecato l'insegnamento più grande della pandemia
Quando il paziente numero 1 è stato intercettato a Codogno, l’Italia è entrata letteralmente nel panico organizzativo. Il carattere tenace degli italiani ha creato le condizioni per una forte solidarietà regionale e nazionale che ci faceva sentire tutti più buoni e più fratelli solo perché restavamo in casa ed applaudivamo ai medici eroi, ma la verità è che i presidi di welfare erano totalmente saltati.
Come in un salto indietro di un secolo, la pandemia ha riportato prepotentemente in scena due attori del ’900, il Pronto soccorso dell’ospedale, per tutte le sintomatologie da Covid, e l’esercito, per il contenimento della popolazione.
Due strutture collettivistiche che richiamano altre epoche ed altri mondi e che invece per diversi mesi, quelli “acuti” della pandemia, hanno tenuto banco nell’offerta di risposte di salute e sicurezza. Non tutto però era fermo al ’900 e mentre le Asl, quasi dappertutto, latitavano nel coordinamento dei pediatri e dei medici di medicina generale, il legislatore governativo, già dal mese di giugno, metteva timidamente mano alla grande riforma che la pandemia ci potrebbe lasciare in eredità: la diffusione delle Case della Comunità e degli Ospedali di Comunità.
Cosa sono? Sono i presidi della salute del XXI secolo, sono nuove istituzioni sociosanitarie che intendono migliorare e agevolare il funzionamento delle vecchie infrastrutture territoriali nate dalla 833 del 1978, sono presidi di uguaglianza tra i territori. Se la sanità territoriale si divideva in Unità Locali prima ed in Aziende Sanitarie dopo, con la Legge 502 del 1999, solo nel 2001 si arriva a definire per la prima volta i Livelli Essenziali di Assistenza, in un’Italia che nel frattempo non ha più l’ossatura “antropologica” del 1978. Il rapporto tra pediatri di libera scelta e medici di medicina generale con il loro territorio di competenza non è lo stesso degli anni ‘80, la sanità privata accreditata si è organizzata in una miriade di offerte in questi lunghi quarant’anni e soprattutto dal 1999 gli studi medici privati sono più affollati di quelli pubblici e la pratica del “case management” — quella per cui un paziente viene preso in accoglienza da un’unica porta di accesso pubblica (Pua) per accedere a un percorso olistico di benessere — resta una chimera.
La “pandemia” a cui non ci sottrarremo sarà l’invecchiamento della popolazione, che chiede risposte agili e veloci
Quando scoppia l’emergenza Coronavirus, la medicina territoriale non viene presa in considerazione come avamposto della “resistenza”: è noto che ai medici di medicina generale da marzo a maggio 2020 non arrivarono né mascherine né le istruzioni minime per prendere in carico i pazienti positivi al Covid, così come si sa che le corsie del Pronto Soccorso e le Rsa sono diventate hub di diffusione del virus. Anche quando arrivano i tamponi e i vaccini la medicina territoriale viene presa in considerazione solo a margine, mentre si dà centralità agli hub vaccinali.
Ma il decreto Rilancio prima ed il Pnrr dopo prevedono grandi trasformazioni. Le riforme prevedono che la medicina territoriale sappia gestire i livelli essenziali di assistenza e la presa in carico personalizzata a partire dalle Case della Comunità, che ricordano nelle intenzioni la mission delle Unità di Salute Locale del 1978, offendo servizi sociosanitari diversificati e su misura dei cittadini di un territorio, come ad esempio l’Area di Accesso con il Cup (Centro unico prenotazioni) e il Pua (Punto unico di accesso); l’Area dei Servizi sanitari, che può ricomprendere medicina di base, prestazioni di primo soccorso, servizi specialistici ambulatoriali, diagnostici e terapeutici, day hospital, ospedale di comunità; l’Area dei servizi e delle attività sociali, che può ricomprendere assistenza sociale, centro diurno, attività associative; l’Area dei Servizi sociosanitari, luogo vero dell’integrazione, che può ricomprendere il consultorio, l’Unità di valutazione multidimensionale/ multidisciplinare, l’assistenza domiciliare, la riabilitazione.
Il Pnrr prevede 381 nuovi Ospedali di Comunità in tutta Italia, una forma leggera di interventi per casi più complessi di quelli seguiti nelle Case della Comunità, presidi sanitari che hanno la mission di evitare una lungodegenza vera e propria ed il ricovero nelle Rsa. Gli Ospedali di Comunità seguono pazienti che non possono restare nel loro domicilio a causa della loro precaria condizione di salute ma che non sono in uno stato così acuto da dover subire un ricovero ospedaliero o un invio in una struttura protetta. Tutte le prestazioni di un Ospedale di Comunità sono finalizzate alla cosiddetta prevenzione terziaria, la prevenzione dell’ingravescenza delle diverse forme delle malattie cronico degenerative, ad esempio…
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Il numero di VITA di novembre, "Il Pnrr nel mirino", grazie agli esperti delle varie reti, ha analizzato cosa va e cosa non va nel Pnrr su dieci grandi temi, avanzando delle proposte: Non autosufficienza; Sud; Case della Comunità; Disabilità; Formazione professionale; Servizio civile; Povertà; Asili nido; Dispersione scolastica e Volontariato. Nei prossimi giorni pubblicheremo questi focus, nell'ottica di informare, monitorare, condividere e provocare.
*Angelo Moretti, promotore Rete per il nuovo welfare
In foto: Il percorso Benessere di Comunità realizzato nell’ambito di Villa San Giovanni (Rc)
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