Non profit
Casco bianco, cuore grande
Un anno in servizio civile con la sua comunità in Cile. Così don Benzi mi ha conquistato
«Siete liberi, siete liberi». Don Oreste ci aveva conosciuti da soli cinque minuti, ma già aveva capito tutto di noi. Io e la ragazza che sarebbe diventata mia moglie, quell?alba di maggio di quattro anni fa, davanti a lui, a raccontargli i nostri sogni inquieti e freschi di laurea, la nostra voglia di partire con la sua Comunità Papa Giovanni XXIII, per un anno in Cile come Caschi bianchi in servizio civile volontario. «La strada è giusta, perché è sorta spontanea dentro di voi», ci ha detto quella volta, spazzando i nostri dubbi con quel sorriso pieno di gratuità e condivisione.
L?abbiamo seguito a cuore aperto, il suo sorriso, e l?abbiamo visto moltiplicarsi, riprodursi sui volti dei fratelli di comunità, di accolti, di anime disorientate che grazie alla Papa Giovanni XXIII hanno trovato una casa, una nuova strada, la vita. In Cile come in Bolivia, a Crema come in Sicilia, a Rimini come in Albania. Decine di nazioni, centinaia di strutture, migliaia di persone.
Ho avuto la fortuna, come tanti altri, di incontrare don Oreste più volte. E di capire che la grandezza di un uomo nasce dalla sua semplicità nonviolenta, dal suo spirito tanto conciliante quanto deciso.
Ho visto don Oreste chiedermi in prestito il letto, per dieci minuti di riposo: tanto gli bastava «per ricaricare le pile», come gli piaceva dire, lui che passava le notti tra i viali a togliere le prostitute dalla strada, nelle discoteche a liberare i giovani dalla droga e dall?alcol, o in posti inaccessibili ai più, con gli ultimi della società, a condividere il freddo, la fame, a raccogliersi in preghiera con loro e con Dio.
Ho visto don Oreste a un Forum sociale mondiale prendere per mano un ragazzino di strada brasiliano, alzarsi e cedere a lui il suo posto alla tavola dove stavamo pranzando. Non sapendo la sua lingua, il prete dalla tonaca lisa ha parlato al giovane con gli occhi, placando almeno per un lungo istante il suo male di vivere.
Ancora, l?ho visto arrivare una mattina, mentre in una decina di persone si discuteva di un paio di scarpe che era stato rubato. «Fate una colletta e non pensateci più», ha detto il suo sorriso. La cosa più normale al mondo. Perché nessuno di noi l?aveva proposto?
Ho visto un giorno don Oreste suggerire a Carlo Giovanardi, ex ministro con delega al servizio civile: «Signor politico, guardi che lei adesso deve promettere di promuovere in modo serio il servizio civile e se poi non mantiene la promessa ci penso io a farle cambiare mestiere, come è successo ai due che l?hanno preceduta». Sorriso, ampio. Contraccambiato.
E l?ho visto l?ultima volta quattro mesi fa, alla Scala per un concerto benefico. Erano quasi due anni che non lo incontravo. Gli ho sussurrato: «Ti ricordi di me?». Mi ha risposto: «Mi prendi in giro? Piuttosto vedi tu di ricordarti di me». Già sapeva, il don: continuava a sorridere, ma, come avrebbe svelato solo a poche persone, il suo corpo era pieno di dolori.
Infine, pochi giorni fa, ho visto il suo corpo dentro un vetro, l?ho applaudito assieme a 10mila persone serene, realmente serene, al suo funerale. L?ho riconosciuto in uno dei canti finali della cerimonia, uno dei suoi preferiti: quell?Ave Maria in gitano, l?ultimo dei suoi messaggi rivoluzionari, spesso provocatori, a volte estremi anche per i fratelli di comunità, figuriamoci per gli altri.
C?è chi morendo lascia un vuoto. Don Oreste, andandosene tra la notte di Ognissanti e il giorno dei Morti, ha invece colmato i cuori di molti. Me compreso.
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