Economia
Casa e lavoro, partita doppia contro la crisi
Ricette e proposte per un ruolo da protagonisti
di Luca Zanfei
Allargare il raggio di azione delle coop B e avviare un percorso per arrivare a un piano integrato dell’abitare. Così la cooperazione sociale prova a rispondere all’emergenza
Ora che anche Ralf Dahrendorf ha riconosciuto nel terzo settore un «elemento centrale di una società ricca e buona», è lecito chiedersi quale ruolo potrà avere il privato sociale nell’attuale contesto di crisi economica e di welfare. Miglior banco di prova non può che essere l’Italia, dove le politiche di contrasto al disagio si sono sempre rilevate inadeguate. Si pensi soltanto che secondo le rilevazioni Eurostat, riprese dall’Osservatorio sulla 328, l’impatto delle nostre politiche non pensionistiche sulla povertà è stato solo del 4%, mentre negli altri Paesi europei ha raggiunto soglie del 50%. Un dato su cui riflettere in relazione alla crescita del fenomeno delle nuove condizioni di disagio che spinge sempre più persone a bussare alla porta delle onlus. «Nell’ultimo periodo sono aumentati i soggetti formalmente non svantaggiati che si rivolgono alle cooperative di tipo B», spiega Giancarlo Brunato, coordinatore delle cooperative di tipo B di Legacoopsociali. «Ma è da tempo che la cooperazione di inserimento accoglie disoccupati di lungo periodo e nuovi casi di disagio. Si può dire che nella prassi abbiamo già superato la casistica di svantaggio propria della 381». Ecco perché, di fronte al cambiamento delle condizioni di disagio, la cooperazione sociale ha da tempo avviato una riflessione sulla riforma della 381, perché «oggi il disagio è molto diverso da 10 anni fa e comprende i disoccupati di lungo periodo e tutte quelle persone che anche per limiti di età escono dai cicli produttivi», continua Brunato. «Avevamo dato la nostra disponibilità con l’allora governo Prodi, oggi vorremmo riprendere il discordo anche con l’attuale esecutivo. Allargare le tipologie di svantaggio ci permetterebbe di raggiungere quei soggetti che al momento non hanno alcun tipo di paracadute e allo stesso tempo consentirebbe di compiere il definitivo salto di qualità, aggredendo nuovi settori di mercato oggi preclusi».
L’autocostruzione finora ha funzionato solamente nelle città di provincia del Nord Italia, dove è più facile pianificare tali interventi urbanistici e raggiungere accordi con gli enti locali. Per il resto «si può al momento ragionare solo sull’autorecupero che permette di riqualificare stabili in disuso evitando di alimentare la speculazione edilizia», spiega Felice Romeo, presidente della neonata impresa sociale Sotto il tetto. «È difficile convincere le amministrazioni dei grandi centri a destinare aree all’autocostruzione, eppure progetti del genere non costerebbero nulla perché sostenuti interamenti dalle cooperative di costruttori e da banche, come Banca Prossima, disponibili a investire in progetti di tale portata sociale. Oggi la cooperazione è pronta a cimentarsi con la costruzione e il recupero socio edilizio di interi quartieri, ma la risposta deve venire anche dalle istituzioni». Ma come preparare il terreno a progetti così complessi? «Basterebbero poche norme a livello statale che vincolassero quote di nuova edificazione a progetti di housing sociale», conclude Cassata. «Esistono già normative regionali che impongono la destinazione di terreni ad edilizia pubblica. Si potrebbero indirizzare quegli appezzamenti a specifici programmi di autocostruzione o recupero».
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