Immigrazione & scuola
Caro Valditara, la vera emergenza è quella di classi e scuole-ghetto
Dopo l'annuncio del ministro dell'Istruzione che, dal 2025, ci sarà un insegnante specializzato nell'apprendimento dell'italiano, nelle classi con oltre il 20% di alunni stranieri, VITA continua l'approfondimento sull'inclusione scolastica. Per la pedagogista Anna Granata (Bicocca), la cittadinanza è un equivoco: sono "stranieri", 60 su 100, anche bambini nati in Italia. Diverso per gli alunni neo-arrivati, «anche per la tendenza a concentrarli in un unico istituto o in alcune classi all'interno di ogni singola scuola»
«Mi piacerebbe chiedere al ministro cosa intende con l’espressione “alunni stranieri”», dice Anna Granata, professoressa associata del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università Bicocca, alla quale abbiamo chiesto di commentare l’annuncio di Valditara dell’inserimento di un insegnante specializzato nelle classi in cui gli alunni stranieri sono il 20% e più.
Granata, perché farebbe questa domanda al ministro Valditara?
Vorrei chiederglielo perché se con “alunni stranieri” intende alunni neoarrivati in Italia, immigrati, non possiamo parlare di un’emergenza per il sistema scolastico italiano. Anzi, vediamo diminuire il numero di questi alunni, non abbiamo flusso continuo significativo. È necessario capovolgere la narrazione.
Può spiegarci meglio?
Diminuisce il numero degli autoctoni, per la crisi demografica. L’unica componente attiva della popolazione scolastica italiana è caratterizzata ancora dai bambini di seconda e terza generazione, nati in Italia da genitori stranieri, che non costituiscono un’emergenza ma l’unica possibilità di sopravvivenza del nostro sistema scolastico, oltre che sociale. Abbiamo una grossa emergenza in Italia, che è la chiusura, di anno in anno, di scuole: stanno chiudendo migliaia di istituti scolastici. È un fenomeno che si vede molto bene nei piccoli comuni, penso a quelli montani. Ma anche nelle grandi città vediamo scuole che non riescono a formare le classi prime della scuola primaria. Nelle scuole che ancora riescono a rimanere aperte, ci sono alunni con cittadinanza straniera per la nostra normativa, ma nati in Italia da genitori stranieri, come dicevo addirittura le seconde o terze generazioni. Quando il ministro dice «più del 20% di alunni stranieri» non distingue un aspetto fondamentale. Tra gli alunni con cittadinanza straniera, più del 60% sono nati in Italia. Quindi, sono ben diversi dalla categoria di alunni neoarrivati che hanno un’esigenza fondamentale di alfabetizzazione rispetto ai bambini e ragazzi che popolano le nostre scuole, nati qui, che sono italiani di fatto ma non di diritto. È importante fare una narrazione onesta.
Cosa intende?
Quando parliamo di bambini stranieri abbiamo questo equivoco della cittadinanza, perché hanno una cittadinanza straniera ma sono nati e cresciuti qui, sono i nostri bambini, spesso figli di coppie miste. È importante chiarire di chi stiamo parlando. C’è un secondo punto delicato: la concentrazione di questi pochi alunni neoarrivati in determinati territori. L’immigrazione è maggiore in alcune zone piuttosto che in altre, abbiamo più neoarrivati nelle regioni del Nord e nelle grandi città. La questione degli alunni migranti è legata alle dinamiche migratorie. Da diversi anni sappiamo che questi alunni vengono collocati in alcune scuole, all’interno di quei territori. Per esempio, a Milano abbiamo molti più alunni stranieri nelle periferie, con una concentrazione di scuole con una percentuale più alta di alunni neoarrivati. Il fatto di appartenere spesso a classi popolari porta le famiglie ad abitare nelle case di periferia, dove c’è l’edilizia popolare. E qui ci spostiamo, quindi, sul piano urbanistico. C’è un piano che riguarda direttamente il ministro e le nostre scuole: è il fenomeno della ghettizzazione.
Ovvero?
Ci sono scuole che orientano gli alunni stranieri in una sede (magari la più periferica) piuttosto che in un’altra, all’interno dello stesso istituto comprensivo. Abbiamo classi con molto alunni stranieri, create contro le normative stesse che ci dicono che è fondamentale distribuire gli alunni in classi diverse, creare una mescolanza di alunni con storie e madrelingue diverse. Questo fenomeno della ghettizzazione purtroppo rende visibile in alcuni contesti questa presenza maggiore. Se fossi il ministro Valditara agirei su questa dinamica, sul lavorare molto per contrastare queste dinamiche di segregazione interne alle nostre scuole.
«Non ci può essere valorizzazione delle diversità senza riconoscimento dei diritti e senza piena consapevolezza delle disuguaglianze. Nella formazione degli insegnanti questo tema non c’è. La prima disuguaglianza è quella della cittadinanza», ha affermato in una precedente intervista a VITA.
Noi abbiamo un principio costituzionale, è unico, un articolo dedicato alla scuola, il 34, che inizia con «La scuola è aperta a tutti» che sancisce l’importanza di fare a scuola un laboratorio di incontro tra bambini con scuole diverse. I nostri padri e madri costituenti hanno lasciato alla scuola questo compito: far vivere contesti plurali, dove i bambini diversi possano incontrarsi. Ai tempi c’erano diversità sociali, migrazioni interne negli anni Cinquanta e Sessanta, oggi c’è questa dimensione, ma c’è anche quella della diversa cittadinanza.
Noi pensiamo sempre di dare una possibilità a questi bambini e ragazzi, quando in realtà sono loro a dare una possibilità alla scuola italiana
Sempre nella precedente intervista alla collega Sara De Carli, affermava: «Per anni ho cercato di smontare, fra genitori e insegnanti, la convinzione che “i bambini stranieri rallentano l’apprendimento della classe”, ma ho smesso di farlo. Ho smesso per non assecondare l’idea della corsa all’apprendimento, l’ansia da prestazione. Io adesso voglio dire che tutto quello che ci fa rallentare è un bene».
Questo è un grosso tema. Ma in realtà a me piacerebbe spostare l’attenzione su un altro piano. Il grosso limite che vedo nella comunicazione pubblica del Ministero è il fatto di concentrarsi tanto su target di alunni. Abbiamo gli alunni stranieri, con bisogni educativi speciali, con disabilità. Però la questione va ricentrata sugli insegnanti.
In che modo?
Non possiamo lamentarci della composizione degli alunni delle nostre scuole. Lo vedo come un limite, mi richiama alla mente la frase di don Milani: «La scuola rischia di diventare un ospedale che cura i sani e respinge i malati». Quale sistema sanitario si lamenterebbe delle patologie presenti tra i pazienti? Qui non parliamo di patologie, ma di diverse storie, capacità, esperienze dei bambini che popolano le nostre scuole. Il focus deve essere ricentrato, dicevo sugli insegnanti, su tutti gli insegnanti. Perché vedo criticamente questa proposta del ministro? Perché abbiamo bisogno di formare tutti i docenti.
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A cosa dovrebbero essere formati tutti gli insegnanti?
A una didattica capace di considerare le diverse lingue madri, i diversi stili di apprendimento, i diversi ritmi di apprendimento che caratterizzano le nostre classi. E qui c’è un problema molto grosso che dovrebbe essere affrontato dal Ministero.
Quale?
Riguarda il reclutamento degli insegnanti. La scuola è l’unico contesto professionale in cui chiunque può candidarsi con la “messa a disposizione”. Abbiamo un problema (i dati di questi giorni ci dicono che Milano rischia di avere 5.600 insegnanti di ruolo in meno), la questione è reclutarli, ma anche reclutarli con delle competenze e, ancora di più, formarli rispetto a queste competenze. Tra queste competenze c’è anche la questione di gestire classi plurilingue ed eterogenee. Se noi forniamo docenti così, non abbiamo più bisogno di creare lo specialista. Mi viene un po’ di tristezza a pensare alla narrazione degli insegnanti che hanno bisogno sempre dello specialista esterno che arriva e si dedica a una delle questioni delle scuole. Noi abbiamo un bisogno di docenti formati, preparati, esperti di didattica e di educazione, capaci di fare il proprio mestiere e, perché no, magari di farlo insieme.
Cosa intende?
Un altro tema è quello della compresenza. Se abbiamo un gruppo di 20 bambini, lì dentro abbiamo, come dicevo, diversi stili di apprendimento e ritmi, differenti lingue madri. Quella è l’opportunità per fare scuola con creatività, facendo in modo che ci siano dinamiche di cooperative learning, lezioni non frontali che sappiamo essere fallimentari. Anche percorsi differenziati e personalizzati all’interno della stessa classe. È chiaro che un insegnante da solo, non formato non può fare tutto questo. Ma non ha bisogno dello specialista, ha bisogno di essere supportato e affiancato da un collega. Le operazioni come questa annunciata da Valditara, le vedo come delle operazioni per provare a tamponare delle problematiche, non vedendo che bisognerebbe fare una riforma più strutturale, che rivaluti la figura esperta dell’insegnante formato attraverso formazione continua e capace di essere valorizzato. L’insegnante è un mestiere importante per la società e pregno di conseguenze, per quello che può fare per la società e non solo per i singoli alunni. Gli inseganti devono essere degli esperti in ambito educativo e didattico, non possono essere improvvisati.
Settimane fa il ministro Valditara aveva proposto di creare classi separate per bambini di origine straniera. Qual è stato il suo pensiero?
Sono piuttosto preoccupata soprattutto per una reazione pubblica. Questa idea di alunno “diverso” e di alunno medio, che trapela sempre. L’alunno medio non esiste, non è in nessun manuale di pedagogia. Abbiamo una pluralità di storie, di esperienze, di situazioni familiari, di condizioni di vita così plurali che il sistema scuola di un tempo non funziona più, per i bambini di oggi in generale. Creare un’omogeneità generale, separando gli uni dagli altri avrebbe degli effetti sociali molto gravi sul medio e lungo periodo, non solo perché non diamo la cittadinanza a questi bambini, ma perché li escludiamo all’interno di quel contesto dove sono mescolati ai loro compagni autoctoni. Questo avrà dei costi enormi, il primo dei quali sarà, direi, lasciare questo Paese. Molti trentenni e quarantenni sono andati altrove a realizzarsi anche lavorativamente. Questo sentimento forte di esclusione, di discriminazione non fa che rimarcare quello che la legge sulla cittadinanza fa: considerare stranieri in patria bambini nati e cresciuti qui. Questo mi turba.
Gli insegnanti dovrebbero essere formati ad una didattica capace di considerare le diverse lingue madri, i diversi stili di apprendimento, i diversi ritmi di apprendimento
Perché la turba?
Rischiamo di perdere una generazione e rischiamo di perdere il futuro. Questi bambini sono la presenza fondamentale nelle nostre scuole, sono la possibilità di costruire insieme il futuro. Intorno al tema dell’educazione c’è un po’ di superficialità. Il recente film di Riccardo Milani con Antonio Albanese, Un mondo a parte, ci racconta bene l’Italia dei piccoli paesi, presentandoci una realtà che poi è la stessa che osserviamo anche nelle grandi città. Ho il sentore che nelle aree interne si stiano già accorgendo che possono avere un futuro solo se diventano accoglienti, competitivi, con una scuola più contemporanea, attrattiva. C’è bisogno di capovolgere la narrazione, come dicevo. Tra gli studenti provenienti dall’Ucraina, molti hanno scelto la possibilità di collegarsi da remoto con gli insegnanti, grazie a una legge speciale fatta per loro c’era la possibilità di fare scuola in questo modo, normalmente c’è obbligo scolastico nelle scuole italiane.
La scelta della maggioranza di studenti ucraini di collegarsi da remoto con i loro insegnanti ci fa riflettere…
Sì, pochi hanno scelto di inserirsi a scuola, anche perché questo nostro sistema scuola non prevede la dimensione del corpo, dello sport: spesso manca lo specialista di motoria, si sta molte ore seduti al banco. Poi le Stem sono insegnate in una maniera ancora tradizionale. Provenendo da un sistema scolastico molto buono come quello ucraino, questi ragazzi hanno preferito collegarsi da remoto, questa narrazione dovrebbe in qualche modo portare la nostra attenzione nel dirci che forse, piuttosto che selezionare ed escludere, dobbiamo farci interrogare dallo sguardo di chi arriva da fuori. Noi pensiamo sempre di dare una possibilità a questi bambini e ragazzi, quando in realtà sono loro a dare una possibilità alla scuola italiana.
Foto di apertura di Kenny Eliason su Unsplash. Foto dell’intervistata
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