Economia
Caro Terzo settore, per cambiare gli altri è necessario cambiare se stessi
Gli auguri per il 2023 del direttore di Aiccon: aprire le porte “ai ribelli”, farsi "disturbare" dal pensiero critico, digitalizzare le catene del valore sociale, progettare alleanze di scopo per rendere desiderabili e radicali le sfide contro le disuguaglianze è un processo necessario per promuovere innovazione nei modelli organizzativi e nelle logiche che governano le progettualità del ricchissimo mondo del “not for profit"
“L'uomo che rimane al buio troppo a lungo
Finisce per parlare con l'oscurità
Ha una mano sempre pronta per coprirsi gli occhi
Quando la luce tornerà
Da sotto le lenzuola il giorno fa paura
Ci si abitua ad ogni condizione anche alla prigionia
Come il lupo chiuso in gabbia teme la sua libertà
Se la gabbia si aprirà…”
(L’uomo che rimane al buio – Niccolò Fabi)
Cosa augurare alle 360mila organizzazioni che popolano il nostro Paese rendendolo più coeso, inclusivo e innovativo? Cosa chiedere “all’anno che verrà” per veder crescere l’impatto di una moltitudine di esperienze, luoghi e progettualità apparentemente invisibili ma che costituiscono la “spina dorsale” delle nostre comunità e il codice sorgente della democrazia deliberativa? Di aver coraggio e di non cedere alla sindrome da basse aspettative o, come diceva Spinoza, di non cadere in quelle che lui chiamava “passioni tristi”.
Desiderare il cambiamento è la premessa per farlo accadere: “Tutto si riduce a desiderio o assenza di desiderio. Il resto è sfumatura” (E. Cioran)
Il 2023 si prospetta un anno complesso, segnato da crescenti disuguaglianze e ingiustizie: un anno di transizioni che necessitano del ruolo imprescindibile del Terzo Pilastro per essere un anno di trasformazioni. Occorre passare dalla diagnosi alla terapia, coltivare e dar potere a quelle aspirazioni in grado di dar forma – oggi – al futuro. La rimozione delle dicotomie (stato/mercato – equità/sviluppo – felicità/utilità), delle rendite che ingessano vite e spazi culturali, delle tecnocrazie che svuotano la potenza generativa della sussidiarietà e dell’innovazione sociale, sarà possibile nella misura in cui la “postura” del Terzo Settore e dell’ Economia Sociale saranno in grado di farsi “riconoscere” fino al punto di proporsi in maniera convinta come parte dei processi decisionali e deliberativi e non appena come soggetto gestore di risorse altrui o ancor peggio come soggetto riparatore. Certo, ce lo ripetiamo spesso, la cosa è tutt’altro che semplice ma dopo un biennio segnato da drammi profondissimi e mali comuni, credo che sia necessario darsi obiettivi misurabili e fattibili per ridisegnare il campo con proposte capaci di alimentare soluzioni dove beni pubblici e privati non siano orfani dei beni relazionali e comuni, dove il welfare non si misuri appena in prestazioni, ma in relazioni e prossimità, dove il lavoro di cura torni ad essere valorizzato nelle sue componenti di compenso e senso, dove l’imprenditorialità sociale possa essere sostenuta al pari delle più blasonate “start up digitali”, dove la cultura torni ad essere la piattaforma più importante per nutrire significati.
La sostenibilità è per l’umano e in quanto tale deve includerlo.
Per questo motivo è impensabile immaginare percorsi integralmente sostenibili senza un ruolo politico (cosa ben diversa dal ruolo partitico) ed economico del Terzo Pilastro del nostro Paese, senza una primazia della società civile, senza un protagonismo del mutualismo. Per cambiare le politiche e le regole del gioco economico, serve un’intraprendenza e uno sforzo non banale nel rinnovarsi, per nel cambiare. Per alimentare cambiamento è necessario cambiare sé. Una prospettiva naturale, necessaria per alimentare legami, per rigenerare luoghi, per ridisegnare economie, per potenziare le comunità e rendere le politiche più inclusive. Aprire le porte “ai ribelli”, farsi "disturbare" dal pensiero critico, digitalizzare le catene del valore, progettare alleanze di scopo per rendere desiderabili e radicali le sfide contro le disuguaglianze è un processo necessario per promuovere innovazione nei modelli organizzativi e nelle logiche che governano le progettualità del ricchissimo mondo del “not for profit”. L’innovazione sociale fiorisce in tutte quelle organizzazioni che son in grado di auto-organizzare le comunità e di dotarsi di modelli agili e ad impatto sociale. Un impatto che non va celebrato nelle metriche (ormai ridotte a commodities) ma in una tensione trasformativa che trova nel senso del lavoro e nel riconoscimento della comunità il suo primo banco di prova. In questo senso la grande innovazione amministrativa della co-progettazione deve essere tradotta, in particolare dalla PA, in cantieri d’innovazione sociale, pena lo svuotamento di un istituto nato per creare trasformazioni e non per calmierare le competizioni.
Una prospettiva che chiede una politica non compassionevole o paternalista, ma consapevole e responsabile. Il Terzo Pilastro è, infatti, quanto di meglio possa esserci per generare economie e capitale sociale, per alimentare valore e fiducia. In un mondo di istituzioni estrattive che “consumano e bruciano” fiducia (trust consumer), le organizzazioni orientate all’interesse generale costituiscono la più rilevante delle sorgenti di reciprocità (trust producer): non possiamo inseguire obiettivi economici desertificando il territorio di relazioni, comunità e partecipazione culturale. Non basta più come diceva Diderot “far bene il bene” occorre anche chiedersi dove va il valore, come viene distribuito, imparando a riconoscere e distinguere fra chi estrae e chi include. Tanto nelle politiche quanto nell’economia, tanto nell’innovazione quanto nell’inclusione.
Nel 2023 ci attende molto lavoro, un lavoro per certi versi entusiasmante. Un lavoro che potrà ambire a trasformare l’esistente solo se diventerà per molti…desiderabile.
“Mai più. Ai miei occhi spenti Mai più Questi gesti finti
Mai più. Questa mia obbedienza
Io dico, "Mai più".
Tutti i pori aperti
Mai più. Luci sempre accese
Mai più. Questa confidenza “
(L’uomo che rimane al buio. Niccolò Fabi Fabi)
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