Formazione

Caro simone, e adesso che si fa?

Opinioni a confronto/ Basaglia, una rivoluzione ancora da raccontare, di Peppe Dell’Acqua

di Redazione

Un giovane di 30 anni, a 30 anni dalla grande riforma si appassiona alla questione dei matti e del manicomio, mette in piedi una ricerca, costruisce un libro ed un video e infine canta la storia di Antonio e Margherita. Antonio dal manicomio scrive una bella lettera d?amore, tenera e umana. Lettera che non partirà mai. Resterà, come allora era uso e regola, nella cartella clinica. Chi è matto, ovvero, a chi una malattia mentale ha tolto ogni cosa e alla fine anche qualsiasi possibile senso ai suoi gesti, ai suoi pensieri, alle sue emozioni, ai suoi sentimenti, alla sua vita, chi è matto, dicevo, non può amare, odiare, desiderare. Qualsiasi cosa egli faccia o dica non è altro che espressione della sua malattia, del suo eccesso o del suo difetto.

Antonio allora, nel 1910, come tanti ora, un secolo dopo, deve battersi, deve rischiare perfino la sua vita per potere affermare il suo amore, il senso che vuole dare ai suoi gesti. Questa messa in scena, così tenera e umana, non può che farci contenti e stupirci.

Intanto è singolare che un giovane si metta a cercare nei manicomi vuoti, in quel che resta, negli archivi, storie e ragioni di un secolo che, per fortuna, è passato almeno in Italia e di una storia certamente non onorevole per gli psichiatri e per la psichiatria. Ecco: sono contento che un giovane riprenda questi temi e, con orgoglio, dica di essere consapevole che in Italia i manicomi non ci sono più. Questa sua ricerca mi conferma da una parte che gli anni non sono trascorsi invano, che la svolta scientifica e storica di Basaglia ha permesso nuovi destini per ?i matti? e, dall?altra parte, che questa storia di cui non bisognerebbe perdere la memoria viene trascurata e maltrattata prima di tutto dalle scuole, dalle università, dai luoghi della formazione. È difficile, oggi, che un operatore della cooperazione sociale, uno psicologo, uno psichiatra, un infermiere, un assistente sociale, un educatore abbia attraversato con una qualche profondità questa storia, abbia potuto toccare oggetti e testimonianze di quei momenti, abbia trovato facile impiantare su questo un lavoro di ricerca. A Trieste, consapevoli di tanto e in relazione con altri gruppi che hanno lavorato in ospedale psichiatrico, abbiamo avviato una ricerca che dovrebbe realizzare l?Archivio generale della deistituzionalizzazione. Raccogliere testi, foto, pellicole: siamo ancora in tempo, e lo stiamo facendo, per raccogliere le ?memorie viventi?. Su questo, le università e le amministrazioni pubbliche dovrebbero investire un po? di più.

Negli ultimi, si fa per dire, 30 anni siamo stati costretti a un?assurda condizione di conflitto: a favore o contro la legge 180. Radio, giornali, tv sono state spiazzate dalla semplicità e dalla trasparenza di Simone. Quasi si sarebbero aspettati che dopo quella canzone ce ne fosse un?altra che cantasse gli orrori della legge 180, l?abbandono e le strutture che non ci sono, la pericolosità e la pesantezza dei ?malati di mente?. Un pubblico così vasto che vota la canzone di Antonio e Margherita ci sta dicendo che è di questo che vuole sentir parlare. Ci sta dicendo che vuole sentire le storie per potersi riconoscere in questo altro che altrimenti resterebbe mostruoso e lontano.

Eppure alcuni giornalisti, pochi per la verità, che mi hanno telefonato, per prima cosa mi hanno chiesto notizie della legge 180. «Come mai malati e famiglie sono abbandonate, è vero che mancano le strutture?». Spero tanto che il successo di questa canzone la faccia finita con «la legge 180 è una buona legge ma non applicata» e la solita usuale cantilena. Penso che Simone abbia potuto cantare questa canzone proprio perché la legge 180, se capissimo bene di cosa parliamo, è la legge meglio applicata in Italia. Gli internati, i matti, Antonio per intenderci, sono diventati cittadini al quale dobbiamo garantire tutti i diritti, rispondere a tutti i loro bisogni: dalla libertà alla dignità, alla cura, all?abitare, all?avere una famiglia.

Infine, parlare di queste cose, come ha fatto Simone Cristicchi, comporta rischi, rischi che bisogna correre. Si rischia paradossalmente il luogo comune proprio volendosene allontanare: la contemplazione della follia, l?incurabilità e il destino ineluttabilmente diverso, la necessità di gesti eroici. Antonio conclude la sua lettera comunicando a Margherita che ha imparato a volare. Molti, me compreso, hanno colto in queste parole e nei gesti che le hanno accompagnate, un messaggio gravido di rischiose contaminazioni. Era il 1975, a Trieste, e Franco Basaglia accordandosi con alcuni simpatici piloti e steward dell?Alitalia, fece volare su Venezia, sull?Istria e su Bologna 120 matti del manicomio di San Giovanni.Quel giorno, fuor di metafora, imparammo tutti a volare.*psichiatra, direttore del dipartimento di Salute mentale di Trieste, Forum Salute mentale


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