Formazione

Caro Moretti, hai fatto un film per dire che il mondo è fermo

Nell'ultimo film di Moretti il tema del lutto nasconde una profonda malinconia che sembra predominare su tutto

di Redazione

Qualcuno ha scritto che un pregio di Moretti è che non imbroglia le carte. Vero, ma nel suo ultimo film, la stanza con cui ha a che fare questo “padre” (le virgolette sono d’obbligo, non un vezzo) è molto più l’anodina stanza dello studio di Moretti-psicoterapeuta che neanche la stanza del figlio adolescente.
La seconda è esibita vuota, prima e dopo la morte di questi, ma anche l’altra è vuota, fino alla logica e conseguente decisione di chiudere bottega. La stanza vuota è, dunque, come il calice vuoto di Parsifal, un feticcio, e le esequie celebrate dal film sono anzitutto quelle del figlio, non di quel figlio.
Se asciughiamo presto le lacrime per il dolore esibito davanti al feretro, ci accorgiamo che il tema del lutto offre una debole e ideologica copertura alla melanconia che già covava nel protagonista e nella sua nuclearissima famiglia: non un amico, né un collega, né qualcuno con cui parlare, mentre l’ultima parola è lasciata alla patologia, qui rappresentata coincidente con l’esistenza stessa, come dice quel paziente ossessionato dal pensiero del suicidio: «Vorrei piangere tutta la vita».
E infatti quello di Moretti non è un divano granché comodo, se i suoi pazienti non vedono l’ora di lasciarlo, né si può dire che egli sieda più comodo sulla sua poltroncina che sembra appena uscita dall’Ikea.
Se giacca e cravatta non sono l’abito che fa il moderno curatore d’anime, allora perché indossarle solo quando si viene convocati dal preside? Viene il dubbio che le camicie a scacchi e i pullover girocollo siano essi l’abito un po’ sdrucito con cui far dimenticare ai pazienti e a noi che il guarire (verbo intransitivo) come il generare (verbo transitivo) implicano un lusso cui egli per primo non accede. Non stupisce quindi che non abbia mai la risposta pronta e felice di fronte alle provocazioni dei suoi pazienti. Perfino il mangiare, voltate le spalle alla mitica Nutella di altri tempi, è qui maltrattato a sottilette e crosta di pane in autarchica solitudine.
L’anoressia (del mangiare, ma anche del parlare, per non dire dell’improbabile fare l’amore con la Morante, scena più porno che neanche un film di Selen) è magistralmente rappresentata.
La stanza-senza-il-figlio si rivela uno stanzino. Circa il lutto, può capitare di osservare che padre è quel tale, non obbligatoriamente psicoanalista, che per primo apparecchia un po’ la tavola forzandosi amorosamente a mettere qualcosa sotto i denti insieme ad altri colpiti dallo stesso lutto, se almeno in lui l’obiezione a che la vita continui non è l’ultima parola. Ma proprio un tale umanissimo atto è impossibile se tutta la vita è già impostata perché niente si muova, o accada.
Che per il Moretti-pensiero il tempo si sia fermato a quegli anni formidabili, lo dimostra il fatto che nel film – anno Duemila – non trova posto neanche un cellulare.
Detto questo, non ho mai gradito le critiche cinematografiche che concludono: «Davvero non sentivamo il bisogno di un simile film». Non significa niente. La questione è un’altra: che cosa (o chi) ci vuole perché la melanconia non sia lei a dire l’ultima blasfema parola offendendo anche l’umanissima esperienza del lutto?
Questo, Moretti, pur bravissimo s’intende, non ce lo dice.

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