”È doveroso riconoscere che le attività non commerciali svolte dalle organizzazioni non profit assumono un ruolo centrale anche in termini di coesione sociale e rispondono direttamente ai principi costituzionali di solidarietà e sussidiarietà, cardini essenziali dell’ordinamento giuridico italiano”, questa dichiarazione di Monti intervenuto in commissione Industria del Senato sulla vicenda Ici/Imu, è senza dubbio il primo (sia pur a ruota di quanto detto da Passera), vero riconoscimento di questo Governo al settore non profit, ed è per questo che ha raccolto un consenso trasversale. A me pare però, che il riconoscimento arrivato dopo oltre 100 giorni di Governo e tante brutte notizie per il non profit italiano, non ultima la soppressione dell’Agenzia del Terzo settore, sia piuttosto stitico, espressione di un pensiero, di un linguaggio e di una visione vecchi, e, paradossalmente per un governo di professori, inconsapevole del nodo giuridico irrisolto che va a toccare: quello della definizione giuridica e fiscale di “ente non commerciale”, di “attività non commerciale prevalente o esclusiva”, che tanti danni ha già provocato nel nostro ordinamento e nelle difficoltà di crescita di un economia non di profitto nel nostro Paese.
In poco più di tre cartelle Monti, proprio «per evitare critiche ingiustificate da un lato» e «interpretazioni riduttive dall’altro», ha sottolineato infatti come sia «necessario definire con assoluto rigore, trasparenza e linearità l’esatto confine tra attività commerciali e non commerciali». Già, poiché è proprio questo il vero nodo gordiano degli ultimi decenni, verrebbe da dire. Si tratta però di un chiarimento, quello di Monti, che per ora né chiarisce né innova la normativa vigente, ma la consolida perpetuandone tutti i limiti, le zone grigie e le ambiguità. Anticipando che ci sarà un successivo decreto del Ministero dell’economia (il suo) sui cui contenuti siamo assolutamente curiosi, per dettagliare gli «aspetti più particolari» della questione, nel suo intervento il premier ha intanto già spiegato quali sono, a suo parere, i parametri affinché una attività, scuole o altro, sia considerata “non commerciale”. Tre gli indicatori proposti: 1) la rilevanza sociale dell’attività e la sua vocazione pubblica; 2) l’accessibilità del servizio, in coerenza con il principio costituzionale che sancisce parità di condizioni tra i cittadini; 3) il carattere non lucrativo, prevedendo che gli utili siano reinvestiti nell’attività educativa.
Certo, si tratta di un salto in avanti significativo rispetto alla pochezza intellettuale e giuridica di altre esternazioni di personale di Governo, per esempio quella di qualche giorno fa di Gianfranco Polillo, sottosegretario all’Economia, che in un’intervista ad Avvenire si era espresso così: «il concetto è semplice ed è iscritto nei principi generali dell’ordinamento: paga l’Imu chi iscrive un utile in bilancio. Chi, insomma, lucra sull’attiva che svolge». Una sciocchezza persino economica oltre che giuridica, che però dice quanto sia radicata in questo Governo, la convinzione che il non profit non possa che svolgere altro compito di quello di Croce Rossa sociale a cui è impedita ogni prospettiva produttiva e di crescita.
Monti, e con lui Passera, rispetto a Polillo fanno un passo avanti, ma ancora sembra non si rendano conto che non basterà un decreto del Ministero a sciogliere il nodo gordiano di cosa sia un “Ente non commerciale” (definizione fascista della prima metà del ‘900), di come si regoli la sua attività e di come la si incoraggi. Tema su cui nel nostro Paese si sono arricchiti consulenti, fiscalisti e commercialisti e su cui sono aperti migliaia di contenziosi e su cui hanno fatto naufragio anche leggi storiche come quella sulle Onlus (legge 460/97).
Tanto per ripassare, ricordiamo che ad oggi gli Enti non commerciali nel nostro ordinamento fiscale sono gli “enti pubblici e privati che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali”. Insomma caro Monti nessuna novità nella sua presa di posizione. Ma allora da dove deriva tanto caos interpretativo?
È l’antica dicotomia tra pubblico e privato vecchia quanto lo Stato risorgimentale. Sono tante, troppe, le soggettività che non trovano collocazione nell’assetto giuridico previsto dal nostro Codice civile (Libro I Titolo II scritto dal fascista Rocco nel 1942!) che non prevede il terzo genus: soggetti privati dal punto di vista giuridico ma pubblici per i fini che perseguono. Bisogna passare dall’ordine civile bipolare a quello tripolare, prevedendo nel nostro ordinamento la sfera del civile. Non è possibile che la Fiat e una scuola, siamo ancora a questo punto, siano considerate alla stessa stregua perché sono accomunate da una transazione economica (acquisto auto e iscrizione dei figli). Bisogna aprirsi ai soggetti di impresa che producono valore non per distribuire dividendi ma per rispondere a bisogni pubblici. La legge sull’impresa sociale (legge 13 giugno 2005, n. 118) ha previsto tutto questo e provava ad andare oltre la vexata quaestio, così come previste sono le tre dimensioni evocate da Monti, ma il suo percorso, agevolazioni comprese, è rimasto in mezzo al guado. Il professore ne è consapevole?
Il privato a finalità pubblica non è né un’utopia né un arcano, ma parte della nostra storia italiana. Una grande storia che è sopravissuta all’idea di Stato come fattore totalizzante del bene comune e all’idea di mercato che si voleva regolatore naturale. Se davvero chi ci governa ha a cuore la crescita non può che ripartire da qui. Augurandoci che il decreto promesso non ingeneri l’ennesimo e costoso pasticcio e auspicando che un più di conoscenza, non solo teorica ma anche giuridica e pratica, eviti di guardare al non profit in maniera assolutamente anacronistica e contraria a qualsiasi approccio di tipo economico e produttivo. Se la mentalità non fosse questa, non potremo che assistere a una sorta di strangolamento progressivo dei soggetti di economia civile nel nostro Paese, e a un immobilismo del Terzo settore produttivo (che si occupi di scuola, cultura, assistenza o ambiente) perché questo sarà il frutto di una visione che non tiene conto del fatto che un’attività non può continuare se non vengono effettuati investimenti. Che poi questo arrivi dai bocconiani al Goerno sembra un paradosso.
Che un soggetto nello svolgimento di un’attività economica a finalità pubblica generi un profitto non è di per sé un problema, anzi è auspicabile, il tema è che questo profitto sia del tutto reinvestito nell’attività statutaria.
Infine, professore, che poi in questo frangente in cui si riprova a definire cosa sia ente commerciale e cosa no, addirittura porzione per porzione in uno stesso edificio (!), si sia deciso di spegnere l’Agenzia del Terzo settore e le sue attività di promozione e di controllo, testimonia un di più di confusione mentale. Infatti, chiudere l’Agenzia per il Terzo settore significa mandare segnali inquietanti al Paese delle “buone pratiche”, della cittadinanza attiva e ritenere sufficiente avere con esso un ruolo strumentale e di mero controllo. Per questo basta infatti l’Agenzia per le Entrate e qualche oscuro funzionario al ministero.
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