Politica

Caro Letta, ora il ministero dell’Economia sociale

Una lettera aperta di Riccardo Bonacina al premier incaricato per una nuova geografia istituzionale per promuovere una reale innovazione e per provare a sprigionare le energie diffuse, ancora, nella società

di Riccardo Bonacina

C’è un punto nell’Agenda possibile (qui il testo completo) consegnata lo scorso 12 Aprile dai 10 saggi nelle mani di Napolitano che il Presidente del Consiglio incaricato dovrebbe assumere per farne un perno di un Governo, possibile sì, ma anche con un forte elemento di novità e discontinuità. Non riducendosi alle solite trattative politiciste e, magari, ai soliti nomi.

Scrivono i dieci saggi nel documento sui temi economico-sociali: «La principale emergenza che ci troviamo oggi ad affrontare è quella del lavoro e della conseguente crescita della povertà e la via maestra» per combatterlo è lo «sviluppo economico equo e sostenibile». Lo scrivono i saggi del gruppo sull'economia nella loro relazione finale. Lo sviluppo deve portare un aumento del benessere, non risolversi in un mero accumulo di beni materiali. Nei paesi avanzati esso si traduce nell’accrescimento qualitativo dei beni e servizi disponibili ai cittadini, che fa aumentare  il prodotto interno lordo (PIL) reale, e in una migliore qualità della vita. In Italia la crescita è asfittica da molti anni. Si è indebolita la capacità del nostro sistema di produrre beni e servizi innovativi, di migliore qualità, di maggiore complessità, attraenti, competitivi. La crisi finanziaria globale del 2007-2008 e le recessioni che ne sono conseguite hanno inferto un colpo grave a un organismo già debilitato. In questo modo non è diminuito solo il reddito, ma la qualità della vita di milioni di persone».  E ancora: «Gli obiettivi immediati In questa fase, qualunque politica economico sociale per l’Italia deve rispondere a tre obiettivi immediati imprescindibili: il mantenimento della coesione sociale, la tutela dei risparmiatori, il rispetto della Costituzione italiana e delle regole dell’Unione europea. Il mantenimento della coesione sociale e territoriale sopra tutto. Se si rompe la coesione della società è in pericolo la democrazia, ogni azione pubblica è paralizzata così come ogni ipotesi di sviluppo».
È un punto fondamentale questo e i saggi hanno mostrato di aver colto un nodo gordiano, se si continua a separare politiche per la crescita da quelle per la coesione sociale come si continua a fare nonostante le evidenze palesi dal 2008 in qui, non si avrà né sviluppo né coesione. Ed è un nodo fondamentalmente politico e istituzionale che un politico attento e giovane come Enrico Letta dovrebbe non lasciar cadere, per beneficio suo e del Governo possibile e per il Paese.

Non si può infatti cambiare paradigma con la stessa architettura istituzionale di 50 anni fa: occorre una nuova geografia istituzionale per promuovere una reale innovazione e per provare a sprigionare le energie diffuse, ancora, nella società.

Occorre riformare le istituzioni per far decollare l’Economia Sociale che per sua definizione tiene insieme sviluppo e coesione: diversamente la politica, malgrado ogni buona intenzione, continuerà a confinare ciò che la società produce, nonostante, la politica e gli assetti istituzionali,  nell’area della residualità.

L’Economia Sociale in Italia è una potenza economica: si contano, ad esempio, quasi 81 mila imprese cooperative e 12 mila cooperative sociali. È un bacino di occupazione significativo, stabile e capace di includere categorie vulnerabili in processi produttivi (la sola cooperazione sociale ha fatto registrare un +17,3% di occupati tra il 2007 e il 2011). Nei settori più sensibili alla qualità della vita (istruzione, minori, cura) le imprese sociali sono protagoniste assolute e garantiscono servizi di qualità. Provate a pensare se per un attimo si fermassero i 2.228.010 lavoratori retribuiti impiegati nell’Economia Sociale: cosa succederebbe in questo Paese?

Come ha sottolineato nel suo blog su Vita.it Paolo Venturi: «In Francia, basandosi sulla semplice constatazione che le imprese sociali rappresentano il 10% dell’economia del Paese e permettono alla società di risparmiare miliardi di euro l’anno di soldi pubblici con forme di “welfare alternativo”, si è deciso di istituire un Ministero sull’Economia Sociale. Potrei andare avanti e parlare della Gran Bretagna, della Spagna o dei paesi nord europei (Svezia e Finlandia in particolare): in tutti questi Stati l’istituzionalizzazione del civile non è una concessione “compassionevole”, ma un atto che nasce dall’evidenza della rilevanza di un settore e del suo peso per lo sviluppo. Come è possibile ignorare il 4,3% del PIL? Alla Nuova Politica va chiesto un luogo su cui incardinare visione, competenze, politiche per l’Economia Sociale: un luogo per lo sviluppo capace di aumentare il suo perimetro e il suo impatto, includendo quell’imprenditorialità capace di garantire dividendi economici e sociali.

Avere un “luogo istituzionale” significherebbe incardinare la cura degli interessi dell’Economia Sociale nel cuore delle istituzioni, smettendo così di delegarla solo a politici sensibili. La cultura e le persone per crescere hanno bisogno di luoghi: rinunciare ad avere luoghi significa rinunciare a crescere. Insomma, in Italia serve un Ministero dell’Economia Sociale, per smettere di scrivere appunti sulle agende e cominciare a lavorare stabilmente su un nuovo libro.

Caro Letta, lo chiami come vuole, Ministero dell’Economia sociale, o Ministero della coesione sociale, o ancora in latro modo, ma una cosa faccia, raduni tutte le competenze oggi disperse tra diversi ministeri (Welfare, Interni, Esteri, Attività produttive, ministeri vari senza portafoglio), ne faccia un solo ministero in cui incardinare il presupposto, il solo presupposto per uno Sviluppo Equo e sostenibile.

Ci pensi, e ci dica.
Grazie

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