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Carnefice o vittima? Un ex bambino soldato a processo per i crimini in Uganda
Dominic Ongwen, l’ex bambino soldato diventato uno dei comandanti dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra), il gruppo ribelle ugandese guidato da Joseph Kony, è sotto processo alla Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja. I giudici hanno respinto la richiesta di sospendere il processo a causa della sindrome da stress post-traumatico sviluppata dal'imputato quando era un bambino-soldato: «non è sufficiente ad assolverlo dalle sue responsabilità»
Era il 14 marzo 2012; la condanna per crimini di guerra da parte della Corte penale internazionale (Cpi) di Thomas Lubanga, ex leader di una milizia armata della Repubblica democratica del Congo, per aver arruolato bambini soldato è stata accolta con grande entusiasmo da parte delle organizzazioni che lavorano in difesa dei diritti dell’infanzia. La sentenza, emessa all’Aja, condanna Lubanga, 51 anni, per aver arruolato i minori durante i cinque anni di guerra che hanno insanguinato la Repubblica democratica del Congo fino al 2003, costati la vita a circa 60.000 persone.
Nel 2006 Lubanga era diventato la prima persona mai arrestata in base a un mandato di cattura della Cpi e il processo a suo carico era iniziato nel 2009 per concludersi lo scorso agosto. L’accusa aveva sostenuto che Lubanga aveva avuto un ruolo chiave nel conflitto nella regione orientale dell’Ituri, ricca di miniere di oro, dove mirava a estendere il suo controllo. «Questa sentenza storica apre nuove scenari per la giustizia transnazionale. Potrà colpire l’impunità nei confronti dell’utilizzazione dei bambini e adolescenti in conflitti come quello della Colombia, dove è stimata la presenza di oltre 10.000 bambini soldato. È urgente che la Corte penale internazionale intervenga anche in Colombia», avevo commentato all’agenzia SIR.
Dal 6 dicembre 2016, Dominic Ongwen, l’ex bambino soldato diventato uno dei comandanti dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra), il gruppo ribelle ugandese guidato da Joseph Kony, è sotto processo alla Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja. Ongwen, oggi poco più che quarantenne, deve rispondere di settanta capi d’accusa per crimini di guerra e contro l’umanità per il ruolo centrale che ha svolto nell’Lra l’Esercito di resistenza del Signore (‘Lord’s Resistance Army’) fondato nel 1987 dal fondamentalista cristiano Joseph Kony per rovesciare il governo ugandese del Presidente Museveni, e attivo anche in Sud Sudan e in Repubblica democratica del Congo. Il gruppo e’ ritenuto responsabile di almeno 100 mila morti e di aver sequestrato oltre 60mila minori per essere trasformati in bambini-soldato. È il più grande numero di reati contestato a un singolo accusato.
I giudici hanno inoltre respinto la richiesta dei suoi legali di sospendere il processo in quanto a loro dire Ongwen soffrirebbe di sindrome da stress post-traumatico sviluppata quando era un bambino-soldato. Ma il passato traumatico dell’imputato «non è sufficiente ad assolverlo dalle sue responsabilità», come ha detto Isabelle Guitard, direttrice dell’ong Child Soldiers International.
«Molti criminali- ha aggiunto Guitard- sono stati delle vittime a un certo punto della loro vita. Noi non possiamo soprassedere ai loro reati sulla base di questo fatto. Il suo status di bambino-soldato potrà essere preso in considerazione nel momento in cui, se giudicato colpevole, si dovra’ determinare la pena».
Dominic Ongwen – così come i suoi compagni – sono accusati di violenze efferate contro la popolazione. Oltre al sequestro e all’addestramento dei minori, su di loro pesano anche accuse di torture, matrimoni forzati, stupri per ottenere bambini da trasformare in soldati o in mogli per i soldati.
Critiche alla Corte Penale Internazionale
Anche in Italia si sta parlando delle defezioni alla Corte Penale Internazionale: il primo è stato il presidente del Burundi (sotto accusa della Corte da aprile per violazione dei diritti umani durante la repressione delle proteste di piazza), che il 12 ottobre ha annunciato il ritiro dalla Cpi. Tre giorni dopo è toccato al Sudafrica, che non ha accettato le critiche rivoltegli dal Tribunale internazionale per non aver proceduto all’arresto del presidente sudanese Omar Al-Bashir (ricercato dal 2009 per crimini di guerra e contro l’umanità in Darfur) in occasione di un vertice dell’Unione Africana tenutosi a Pretoria nel 2015 (si veda Confronti 7-8/2015). Le autorità sudafricane si sono difese affermando che non potevano procedere all’arresto su mandato di cattura internazionale di un capo di Stato in carica e coperto dall’immunità diplomatica.
Il 27 ottobre alla lista dei ritiri si è aggiunto anche il Gambia, che attraverso il presidente Yaya Jammeh (arrivato al potere con un colpo di Stato nel 1994) ha bollato la Cpi come uno strumento che «persegue e umilia la gente di colore, in particolare gli africani», dimenticando la feroce repressione riservata all’opposizione e la politica di isolazionismo internazionale a cui ha condannato il suo paese
I paesi africani accusano la Cpi di aver preso di mira solo loro: certamente su 10 procedure in corso presso il Tribunale ben 9 riguardano stati di questo continente. I presidenti affermano che la Cpi attua la politica di due pesi e due misure, trasformandosi così in un apparato al servizio del neocolonialismo. Una opinione condivisa dai leaders soprattutto dopo l’arresto ed il procedimento penale contro l’ex presidente ivoriano Laurent Koudou Gbagbo, catturato dalle forze speciali francesi su mandato Onu.
Possibile intervento CPI in Colombia
La Cpi si difende: la preponderanza di casi africani è dovuta in gran parte alle procedure di ricorsi alla Corte. Inoltre – affermano i giudici – per una classe dirigente che si sente perseguitata ci sono le numerosissime vittime di crimini contro l’umanità commessi in Africa che vogliono giustizia dall’unica corte che gliela può garantire, nonostante le lentezze, scarsi mezzi e pochi soldi a disposizione. Da L’Aja fanno notare che ci sono 10 inchieste in dirittura d’arrivo su conflitti non africani in Colombia, Palestina, Ucraina, Afghanistan.
L’accordo firmato all’Avana tra il governo di Bogotá e i rappresentanti della Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia Farc aveva fissato che entro sabato 10 settembre 2016 «tutti i minorenni» dovrebbero essere trasferiti nei campi di raccolta gestiti dall’Unicef, consegnandosi ai delegati della Croce Rossa Internazionale.
In una guerra che dopo 52 anni ora finisce e consegna le armi alla pace, dovevano essere infatti i bambini – i guerriglieri bambini – i primi ad andar via dai campi mimetizzati e inaccessibili dove hanno vissuto i loro anni d’una infanzia senza giochi. Avrebbe dovuto iniziare un viaggio fuori dal tempo e dalla paura, per migliaia di bimbi e di ragazzi nell’intrico fitto della giungla colombiana; era la speranza: in quasi 4 mesi sono stati liberati solo 16 baby soldati e il crimine di migliaia di bambini soldati rimane ancora nella totale impunita’.
Davide Mattiello, parlamentare PD della Commissione Antimafia, ex dirigente nazionale di Libera, commenta che «il 12 febbraio 2002 entrò in vigore il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sull'utilizzo dei minori nei conflitti armati. E proprio il 12 febbraio è la giornata dedicata a dire stop ai bambini soldato perché proprio in quella data nel 2002 entrò in vigore il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, riguardante l’uso dei minori nei conflitti armati. Secondo questo protocollo nessun minore di 18 anni può essere reclutato con la forza o utilizzato direttamente nelle ostilità, né dalle forze armate di uno Stato né da gruppi armati. Potete leggere qui l'appello di COALICO e della deputata Angela Robledo (Verdi), co-presidente della Commissione PACE del Parlamento colombiano», conclude Mattiello.
Ragazze e ragazzi sono bersagli diretti e vengono anche arruolati per combattere. Sono vittime di torture, mutilazioni, abusi sessuali. Le loro case e le scuole distrutte. È come se vivessero all’inferno
Ban Ki-Moon – report annuale ONU
Martedì 2 agosto 2016 il Consiglio di Sicurezza, ha dato avvio al dibattito aperto volto a discutere il 14° Report Annuale rilasciato dal Segretario Generale Ban Ki-moon a riguardo del preoccupante coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati.
Il Segretario Generale si è dichiarato particolarmente preoccupato per l’aumentare dei casi di abusi sui diritti dei bambini, ormai troppo frequenti sopratutto in zone come Afghanistan, Iraq, Somalia, Sud Sudan, Siria e Yemen. Solo in quest’ultimo paese, ad esempio, il tasso di bambini arruolati nell’esercito e nelle milizie locali si è quintuplicato rispetto allo scorso anno e il numero di bambini uccisi o mutilati è aumento di sei volte.
Il Segretario Generale si è dichiarato particolarmente preoccupato per l’aumentare dei casi di abusi sui diritti dei bambini, ormai troppo frequenti sopratutto in zone come Afghanistan, Iraq, Somalia, Sud Sudan, Siria e Yemen. Solo in quest’ultimo paese, ad esempio, il tasso di bambini arruolati nell’esercito e nelle milizie locali si è quintuplicato rispetto allo scorso anno e il numero di bambini uccisi o mutilati è aumento di sei volte. A tutto ciò si aggiungono gli attacchi compiuti quotidianamente dall’ISIS, che sempre più spesso si avvale di bambini soldato per rimpolpare i suoi ranghi, e le violazioni portate avanti da Boko Haram in Nigeria dove, solo per citare uno dei tanti casi registrati, 21 ragazze sono state fatte esplodere in luoghi affollati.
In occasione dell’apertura del dibattito aperto il Segretario Generale ha affermato: «Lo scenario internazionale cambia continuamente ma una cosa sembra rimanere uguale: i bambini continuano a pagare il prezzo più alto nelle situazioni di guerra. Le ragazze i ragazzi sono bersagli diretti e vengono troppo spesso arruolati per combattere. Sono vittime di torture, mutilazioni, abusi sessuali. Le loro case e le scuole vengono distrutte. È come se vivessero all’inferno». Ban Ki-moon ha proseguito rifacendosi direttamente ai dati e ricordando che lo scorso anno in Somalia le violazioni sono aumentate del 50% rispetto al 2014, in Siria migliaia di bambini sono morti a partire dall’inizio dei conflitti e milioni sono rimasti traumatizzati, le violenze continuano a colpire i bambini israeliani e palestinesi e al momento più di metà dei profughi sono minorenni. Il Segretario ha poi spostato l’attenzione sul fatto che spesso gli abusi hanno luogo anche durante le operazioni di contro-terrorismo o pace-keeping e in occasione dei bombardamenti aerei. «Anche la guerra ha le sue leggi. Gli ospedali e le scuole dovrebbero essere protetti. I civili dovrebbero essere risparmiati, e i bambini non dovrebbero essere usati per combattere — ha dichiarato Ban Ki-moon — Il Report potrebbe risultare sconfortante ma non è questo il suo intento: esso mira a proteggere i bambini in pericolo e a promuovere un cambiamento concreto. Sono stati fatti passi avanti. Nel 2015, più di 8000 bambini soldato sono stati rilasciati e hanno possono ora tornare alla normalità. Molti paesi, inoltre, hanno approvato diverse leggi riguardanti la salvaguardia dei minori. L’obiettivo finale è porre fine a tutte queste gravi violazioni. Ciò richiede l’interruzione definitiva dei conflitti e il ristabilimento della pace, e per fare questo è necessario l’appoggio di ogni Stato membro. Se volete proteggere la vostra immagine, proteggete i vostri bambini», ha concluso il Segretario.
A presentare il rapporto al Consiglio di Sicurezza, c’erano anche Leila Zerrougui, secretary-general’s special representative for Children and Armed Conflict, e Anthony Lake, Executive Director of UNICEF.
Un'intervista esclusiva ad Anne Robin, braccio destro di Leila Zerrougui
Durante lo stakeout per la stampa Zerrogui ha affermato: «Il report fa riferimento al 2015 ma purtroppo gli abusi continuano anche nell’anno corrente. Il Mandato Speciale per la Rappresentanza dei bambini nei conflitti armati è stato creato vent’anni fa per porre fine alle violazioni e, anche se molte di queste proseguono, sono stati registrati progressi e ci complimentiamo con i leader che fanno tutto il possibile per assicurarsi che i diritti dei bambini vengano rispettati, anche nelle condizioni più difficili».
Cristiano Morsolin è esperto di diritti umani in America Latina
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