Scenari

Carlos Alberto e gli altri 300 leaders for peace: «Noi la pace la sappiamo fare, ascoltateci»

I Leaders for peace dell’Associazione Rondine vogliono essere protagonisti di un cambiamento culturale che non punti solo a disinnescare le bombe. Cosa chiedono? Che tutti i 193 Paesi dell'Onu destinino parte del proprio budget per la Difesa alla formazione di attori in grado di favorire percorsi di pace e di inserire l’insegnamento dei diritti umani nei rispettivi sistemi d’istruzione

di Francesco Crippa

Ascolto, riconciliazione, opportunità. Sono questi gli ingredienti necessari a costruire una pace durevole secondo Carlos Alberto, uno degli oltre 300 Leaders for peace di Rondine – Cittadella della pace, l’associazione aretina che si impegna per la riduzione dei conflitti nel mondo attraverso un originale metodo di confronto tra cittadini provenienti da aree del mondo segnate da guerra e violenza. 

La campagna Leaders for peace – che chiede a tutti i 193 Paesi facenti parte dell’Onu di destinare parte del proprio budget per la Difesa alla formazione di attori in grado di favorire percorsi di pace e di inserire l’insegnamento dei diritti umani nei rispettivi sistemi d’istruzione – è animata da giovani provenienti da tutto il pianeta che si battono anche per un maggiore rispetto della risoluzione 2250/2015 delle Nazioni unite, che riconosce proprio ai giovani non solo lo status di vittime dei conflitti ma anche quello di attori chiave nella costruzione della pace. 

Mentre si registra un aumento delle tensioni nelle relazioni internazionali che sembra suggerire che il mondo stia incamminandosi verso un periodo turbolento, sono proprio i giovani a chiedere più spazio. Carlos Alberto ha 22 anni, è cresciuto a Baranquilla, in Colombia. Un Paese, racconta, «in cui la cultura della violenza è rimasta radicata nel subconscio collettivo».

La guerra e l’indifferenza lo hanno spinto a impegnarsi in prima persona: «Quando accadeva qualcosa e mi limitavo a guardare le notizie, sentivo dentro di me un’inquietudine che mi spingeva a intervenire, a non rimanere in silenzio, a far sentire la mia voce. Così, quando finalmente ho deciso di impegnarmi, mi sono accorto di non essere l’unico “pazzo” che sognava di contribuire alla costruzione della pace». Una pace, sottolinea, che non significa solo disinnescare le bombe. «A volte pensiamo che la pace sia l’assenza della violenza, ma questa è solo una parte del processo. È necessario decostruire questo nemico comune che è la guerra. Più che un obiettivo finale, la pace è una continuità nel tempo, un processo attivo che richiede ascolto, riconciliazione e opportunità».

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A quasi dieci anni dall’approvazione della risoluzione Onu 2250/2015 che promuove l’effettiva partecipazione dei giovani nei processi di riconciliazione, ricostruzione e promozione della pace, a che punto siamo rispetto allo spazio dato ai giovani? Per Carlos Alberto il bilancio è tutto sommato positivo: «Penso che quel testo rappresenti un primo passo verso lo sviluppo di una pace duratura. È vero che non garantisce un impatto immediato e universale, ma è un punto di partenza. In Colombia, per esempio, dopo l’Accordo di Pace del 2016, molti giovani hanno assunto un ruolo attivo nei processi di riconciliazione e memoria, ma allo stesso tempo continuano a essere tra le principali vittime di violenza, esclusione e repressione». 

Ha un giudizio completamente diverso Envera Suljic, anche lei Leader for peace di Rondine. 32 anni, viene dalla Bosnia-Erzegovina. «Come spesso accade con molte, anzi con tutte le iniziative dell’Onu, la risoluzione 2250 è rimasta per lo più lettera morta, un triste promemoria di quanto le parole possano rimanere vuote se non supportate da azioni e politiche efficaci». 

Carlos Alberto e Suljic vengono da background diversi e operano in contesti differenti. Entrambi, però, concordano sul fatto che ai giovani debba essere data più voce. «La domanda su quale possa essere il contributo dei giovani nella costruzione di una pace duratura mi fa davvero arrabbiare», spiega lei. «È incredibile sentire sempre che i giovani devono fare la differenza, mentre in realtà nessuno gli dà una possibilità concreta». La concretezza, per Carlos Alberto, assume una forma precisa: «servono finanziamenti per iniziative giovanili, un accesso reale ai processi decisionali e un cambiamento culturale che riconosca i giovani non solo come beneficiari della pace, ma come suoi veri costruttori».

È proprio questo cambiamento culturale, forse, il punto più importante. Una nuova prospettiva che parta non dalle discussioni ad alti livelli, ma che si diffonda in senso inverso, dal basso verso l’alto. «Dobbiamo essere consapevoli dell’impatto che possiamo avere nel mondo», sottolinea Carlos Alberto. «Io, per esempio, non posso certo costruire la pace mondiale. Tuttavia, quando riconosciamo che possiamo compiere “piccole” azioni, come essere pronti ad ascoltare chi non la pensa come noi o essere aperti ad affrontare discorsi che ci mettono a disagio, allora iniziamo davvero a costruire la pace. Non si tratta di cambiare il mondo intero, ma di trasformare il nostro mondo più immediato, quello che abbiamo davanti a noi».

Per Suljic, tutto questo significa potenziare l’aspetto educativo. «Un’educazione di qualità, accessibile a tutti, è il primo passo per creare una società in cui ogni individuo abbia la possibilità di svilupparsi e sentirsi al sicuro. È essenziale che i governi creino opportunità reali, garantendo che il cittadino non debba preoccuparsi delle necessità primarie per poter poi puntare a un futuro migliore». 

In apertura: alcuni giovani dell’Associazione Rondine. Foto di Associazione Rondine – Cittadella della pace

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