La mamma di Carlo è una fotografa affermata. Persino il maestro Riccardo Muti non riesce a fare a meno dei suoi scatti. Gli organizzatori dei più importanti master di fotografia se la contendono. Il padre di Carlo è un professore universitario al Politecnico di Milano. Entrambi, presi da mille impegni, trascurano il figlio, che a 15 anni non riesce a stare da solo.
Un giorno, nel bel mezzo della lezione di matematica, mentre l’insegnante scriveva alcune formule alla lavagna, Carlo l’ha combinata grossa: ha emesso un sonoro rutto suscitando ilarità e compiaciuto consenso da parte dei compagni. La professoressa, che l’ha individuato in tempo, l’ha portato dal preside, il quale oltre a fargli una ramanzina e una esplicita nota con la penna rossa sul registro di classe, ha chiamato i genitori, che si sono scusati per il figlio, ormai disonore della famiglia. Al consiglio di classe, convocato d’urgenza dal preside per comminare la pena alla presenza dei genitori del ragazzo, ho tracciato un quadro di Carlo, e la mamma, stupita, ha detto che era così preciso che neppure lei sarebbe stata in grado di delinearlo. A fornirmi i particolari è l’ora di ginnastica, durante la quale Carlo si muove tra i compagni in un contesto ludico; ma da alcuni mesi ho colto in lui segnali di inquietudine. La mamma di Carlo mi ha chiesto di aiutarla, e in cambio le ho detto di rinunciare a qualche scatto e stare un po’ con lui.
Carlo viene a scuola con lo skateboard, che chiama «la tavola». Pur distante da scuola alcuni chilometri, Carlo al mattino, zigzagando sui marciapiedi e seminando terrore tra i pedoni, raggiunge l’istituto in un baleno, e prima di entrare in classe nasconde la tavola in un anfratto della scuola. A Carlo ho chiesto di portare in palestra lo skate e ai suoi compagni di cimentarsi con l’attrezzo, zigzagando tra i coni. Tra cadute mie e altrui e risate collettive, tutti chiedevano aiuto a Carlo, scopertosi d’improvviso al centro dell’attenzione.
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