Non profit

Carlo Dell’Aringa: «È forza traino dello sviluppo»

Valutare il peso economico del volontariato? Sì, dice l'economista della Cattolica

di Giuseppe Frangi

Carlo Dell’Aringa è personaggio sulla breccia in queste settimane. Indicato come ministro del Welfare nei giorni della formazione del governo Monti, dal 1983 insegna Economia politica alla Cattolica di Milano. È esperto in economia del lavoro. Con lui abbiamo affrontato il tema di un “lavoro” su cui non si fanno mai valutazioni economiche: quello del volontario.
Come giudica l’idea di mettere dei numeri al valore aggiunto della gratuità?
Condivido del tutto l’idea. Oggi il volontariato è una forza mobilitatrice di risorse, che produce un benessere sociale che per altre vie non sarebbe possibile. Garantisce servizi che nelle condizioni in cui siamo sarebbe problematico garantire, in un momento in cui tutti pensano solo a razionalizzare. Lo vedo come una forza che spinge verso l’innovazione e che sta crescendo come effetto delle condizioni critiche in cui ci troviamo.
Non è un paradosso. Abbiamo bisogno di occupazione e troviamo il volontariato come forza trainante?
No. Perché ogni innovazione introdotta alla fine mobilita occupazione. Dietro l’esperienza di volontariato vedo sempre due fattori: il primo è uno spirito di solidarietà che non prevede un ritorno nei termini delle logiche di mercato. Il secondo è l’innovazione e, in particolare, la capacità di organizzare la domanda. Anzi, prima ancora di organizzarla, si tratta di farla emergere e di portarla allo scoperto.
Non c’è il rischio che un volontariato così fornisca in realtà servizi a minor costo?
Non penso ci sia questo rischio. C’è sempre una sorveglianza sindacale e si possono sempre mettere in atto dei correttivi. Piuttosto vedo come importante il ruolo del pubblico come regolatore e del mercato come fornitore di risorse perché il volontariato possa organizzare servizi e fare innovazione laddove oggi il welfare non riesce ad arrivare.
Questa accentuazione sul fattore economico non rischia di snaturare l’esperienza di volontariato?
Non è questo il rischio. Il rischio è quello di perdere lo spirito iniziale, che non è solo uno spirito di gratuità ma è anche un’intelligenza nel leggere le situazioni e i bisogni. Per me è importante che quello spirito venga accompagnato ad una maturazione, guardando anche all’efficacia del risultato e del beneficio diffuso. Per questo non trovo giusto erigere barriere tra l’esperienza del volontario “puro” e quella di chi sceglie di lavorare nel sociale. Per me c’è una continuità. Penso addirittura che uno spirito di competizione temperato sarebbe salutare per il mondo del volontariato. Anche se in realtà a volte vedo sin troppa competizione tra organizzazioni.
E questa non va bene?
No, perché è competizione che genera arroccamento identitario dietro le rispettive sigle. Come se queste premiassero su tutto. Invece, quella che intendo io è una competizione diversa. Non è una rivalità ma un concorso a cercare risposte sempre più efficaci e rispettose delle persone. A volte il non profit non tiene conto di quella che è la sua forza: la logica di rete, la mentalità collaborativa e cooperativa.
Che cosa sarebbe un’Italia senza volontariato?
Senza fare retorica, penso che sarebbe un Paese chiuso allo sviluppo. Oggi diamo un peso non adeguato alle potenzialità del volontariato. Invece è decisivo per disegnare il futuro e il tipo di sviluppo verso cui ci indirizziamo. Per questo lo considero una ricchezza in ogni accezione del termine.

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