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Carlo Castagna, la forza del perdono

Nella strage di Erba perse moglie, figlia e nipote. Oggi racconta...

di Redazione

Interviste non ne rilascia. Ma quando gli chiedono di raccontare in incontri pubblici quel che gli è accaduto non si tira indietro. All’ultimo c’era anche «Vita»… «Io ve lo assicuro. Con le lacrime agli occhi, ho trovato la gioia. Perché la sofferenza è del cristiano, ma la tristezza no». Con queste parole Carlo Castagna – marito, padre e nonno di Paola, Raffaella e Youssef, uccisi a Erba nel dicembre 2006 – ha aperto un incontro pubblico sul tema del perdono cristiano. Un incontro senza clamore, in una piccola e gremita chiesa comasca, con un “signor” Carlo lontanissimo dal porsi e sentirsi in qualunque modo “protagonista”. Tra il pubblico, ad ascoltare c’era una giornalista di Vita. Che ha annotato alcuni stralci del suo intervento.

Perdonare
«Dopo quel fatto non ho fatto un approfondimento razionale, non ho detto adesso cosa faccio? Perdono? Sì, no, ma? La fortuna ha voluto che mia moglie e le mie tre mamme – la mia, morta sotto i bombardamenti, la signora straordinaria che mi ha cresciuto, e poi mamma Lidia, mia suocera – mi abbiano creato attorno un clima per cui mi è venuto spontaneo perdonare, è stato naturale pensare che le prime vittime fossero loro due. E la sera, come anche fa mamma Lidia, nella preghiera trovo spazio anche per loro due, perché trovino la pace del cuore, perché non puoi immaginare che abbiano fatto quello che han fatto senza grossi problemi nelle loro esistenze. Quella sera quindi a livello di razionalità mi sono trovato sbattuto in un tunnel, ero in grossissima difficoltà, ma non ho avuto un attimo di incertezza a livello di atteggiamento interiore, di consapevolezza sul fatto che dovevo ancora e più di prima abbandonarmi totalmente al Padre, nella preghiera. Subito, la sera stessa, mamma Lidia mia ha detto: “Carlo, non potremo più recitare il Padre Nostro se non perdoniamo”».

“Me la lego al dito”.
Ma sarei diventato una mummia…
«Vendetta e rancore no, sono parole che non sono mai state pronunciate in casa nostra, ma dire “me la lego al dito”, quello sì. Anche mia moglie Paola, era buona ma non buonista, se le pestavi i piedi reagiva. Anche io ho rischiato di soccombere sotto questo fatto, sotto la logica del “me la lego al dito”. Però poi ho pensato: basta un dito per quel che mi è successo? Dovrei legarmelo alla mano, al braccio? ma nemmeno quello basta. Avrei dovuto fasciarmi tutto, come una mummia. Appunto. Ho preferito rinunciare a legarmi, rimanere libero. Il fatto è che puoi avere tutte le ragioni del mondo per non perdonare, ma se non perdoni soccombi sotto il peso del rancore. Il perdono non serve ai colpevoli, non ho mai pensato “chissà come la prenderanno loro”, serve a te. Il perdono ci rende liberi. Innanzitutto Paola avrebbe voluto così, di certo il suo ultimo pensiero non è stato “Speriamo che mio marito ci vendichi tutti”».

Ma Dio dov’era?
Domanda sbagliata
«Mi chiedono se sarei disposto ad incontrarli. Io no, ma se lo chiedessero loro, se ci fossero serie garanzie da parte del cappellano del carcere che hanno riconosciuto il male commesso e compreso che la pena della giustizia umana non è qualcosa che gli è caduto addosso dall’alto ma è giustizia umana? Ho sentito tante volte la gente chiedersi “Ma Dio dov’era?”. Credo che non ci sia domanda più sbagliata. Dio era lì, senza dubbio. Era lì vicino a Paola, Raffaella e Youssef ma anche vicino a loro due. Il fatto è che Dio ci lascia liberi, nel compiere il bene e nel compiere il male, bussa al nostro cuore ma sta a noi apririgli o meno la porta».

Cento di dolore, 101 di forza
«Ho fatto un patto col Padre eterno, mi sembra che lo stia rispettando: gli ho detto “Lasciami tutto il dolore, ma dammi tutta la forza per viverlo”. Due sere dopo il fatto, con mamma Lidia ci siamo detti: “Dobbiamo chiedere la forza di sdraiarci anche noi sulla croce”, come dice quella frase sul muro di una chiesa nei pressi di Cantù, che tante volte con Paola avevamo riflettuto: “Se mi accogli ti sorreggo, se mi rifiuti ti schiaccio”. Io l’ho proprio pretesa, implorata, questa forza. Sono stato molto aiutato, ma devo dire che oggi se il dolore è 100, la mia forza è 101. È necessario che sia così, perché se è anche solo 99, soccombi».

Il “fedometro”
«Io non avevo mai misurato la mia fede, non possedevo un “fedometro”. Diciamo che prima del fatto speravo di avere una fede su cui contare, ma non sapevo se potevo contarci davvero. Certo non avrei mai pensato che nel giro di così poco tempo, in sei/sette mesi avrei sentito che non tutto era perso. Che ho perso il contatto fisico con i miei cari, sì, ma sono ancora in contatto e in comunione con loro. Mi capita spesso di parlare a Paola e poi di rispondermi con la sua voce, cioè con quello che lei avrebbe detto. E mi capita spesso, in chiesa, su quella seconda panca dove ci siamo sempre seduti, di sentirla vicina, che mi tocca un gomito e mi sussurra qualcosa all’orecchio. Dagli occhiali appannati capisco che sto piangendo, ma sono momenti di grande serenità. Io sono convinto che loro sono in un luogo così bello che se anche potessero non tornerebbero indietro».

Nonno, il cielo è uno solo
«Il mio atteggiamento è la normalità di chi si abbandona e dice: “Senza di te non posso fare nulla”. Mi ha colpito molto una cosa che mi ha detto il mio nipotino, quando mi ha visto un po’ turbato per il fatto che Raffaella e Youssef sono seppelliti in Tunisia: “Nonno, non fa niente, il cielo è uno solo”».

Accantonare briciole di speranza
«La fede non si improvvisa. Io ho avuto la fortuna, con Paola, di aver preso la buona abitudine di pregare insieme con i Salmi, la mattina. Una preghiera regolare, un appuntamento quotidiano, se volete anche abitudinario: questa abitudine mi ha aiutato. Come il fatto di andare a recitare il rosario prima della messa delle 8, il mattino, ci sono andato fin dal mercoledì, due giorni dopo il fatto. Ci sono molte “signorine”, lì, in chiesa, adesso se manco una mattina poi mi chiedono se sono stato male: una vicinanza delicata, ma che ho sentito molto. Se mi avessero detto prima “Carlo preparati, perché ti cadrà addosso qualcosa di terribile”, non sarei mai stato pronto, non sarei stato così forte. La forza, l’aiuto, arrivano in base alla necessità. Però forse inconsciamente con Paola ci si è sempre preoccupati di accantonare un briciolo di speranza, ogni giorno. La fede viene cercandola e alimentandola, come un fuoco, portando un bastoncino ogni giorno. Ma sapendo anche che, prima che si spenga, ci vuole molto tempo. Anche quando sembra spento, c’è ancora la cenere, un tizzone che si può riaccendere».

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