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Cari tifosi, rassegnatevi: non lo capiremo mai

La lettera aperta di uno scrittore, interista doc

di Luca Doninelli

Diciamo allora che qui il problema è diverso. Il colore della pelle una volta tanto non c’entra. Può essere usato in certi cori telecomandati, ma il problema non è quello. Con Eto’o è un’altra cosa. Con Muntari è un’altra cosa. Il problema, qui, coincide con lui, perché la diversità è lui. Lui è uno diverso, è uno che non intende suonare la musica che piace, la musica che va per la maggiore, non perché non vada bene fare queste cose, ma perché lui – e insieme a lui pochissimi altri – ha la sua musica da suonare.
Mi ricordo, tanto per parlare, un glorioso concerto di uno dei più grandi gruppi rock di sempre, la leggendaria Allman Brothers Band: un concerto immortalato nel celeberrimo doppio album At Fillmore East, del 1971. Nel più celebre dei brani del celebre disco, You don’t Love Me, a un certo punto il primo chitarrista, Duane Allman, accenna a un riff molto ritmato, al quale subito il pubblico, già in delirio oppure alticcio, risponde battendo le mani a tempo. Allora Duane – secondo nella classifica dei migliori chitarristi di sempre, dopo Jimi Hendrix (che in effetti resta irraggiungibile) – interrompe d’un tratto il suo assolo, la gente batte le mani ancora per qualche secondo, poi, nonostante l’alcol, capisce che non c’è trippa per gatti e si dà una calmata. Capisce che Duane Allman e la sua band, che è la più straordinaria band di rock-blues mai esistita (e lo sapevano tutti già allora), non sono lì per fare la musica che vuole il pubblico: sono lì per fare la loro musica.
Com’è difficile suonare la propria musica! Ci vuole già molto coraggio per scoprire se questa musica c’è o non c’è. Poi, una volta scoperto che c’è, è necessario suonarla, e qui il coraggio di prima non basta più, ce ne vuole dell’altro.
Il brutto (ma anche il bello) è che spesso non sei tu il primo ad accorgerti di avere questa musica – la chiamo così perché anche il calcio che cos’è, se non musica? -, qualcun altro ci arriva prima, e non di rado la cosa, anche se questo altro non vorrà mai ammetterlo nemmeno con se stesso, non gli garba affatto, perché la tua musica, proprio perché tua, non risulterà immediatamente funzionale a nessun piano.
La musica di Miles Davis è funzionale a una band? Al contrario: Miles Davis, altro esempio, ha cercato sempre di formare band che sapessero adattarsi alla sua inadattabilità.
Mario Balotelli non è ancora Miles Davis, ma ha una cosa in comune con lui: non il talento (parola di cui il 95% delle persone non ha nessuna idea di che cavolo sia) ma il dramma necessario per capire tutto quello che c’è in te e il modo migliore di usarlo. Se io guadagno giusto quanto basta per mantenere la famiglia, non ho il problema di fare piani d’investimento. Se guadagno tre volte tanto, avrò un certo tipo di problemi. Se guadagno mille volte tanto, ne avrò un altro tipo ancora.
Mario Balotelli è giustamente definito da una parola che, a seconda da come la guardi, è piena oppure vuota. È un cosiddetto fuoriclasse. Nessuno sa cosa voglia dire questa parola. Tecnica? Fantasia? Forza? Carattere? Piedi buoni? Piedi straordinariamente buoni? Nessuna di queste cose fa un fuoriclasse. Un fuoriclasse nasce nella testa: in termini classici si chiama partenogenesi. Sì, un fuoriclasse nasce per partenogenesi, anzi: per autopartenogenesi, nel senso che nasce dalla propria stessa testa.
Ibrahimovic è capace di certe magie perché ha i piedi buoni? Probabilmente non ha i piedi così buoni, non è un Messi o un Cristiano Ronaldo. Ma ha una testa in cui nascono continuamente quelle cose. Secondo me c’è stato un lungo periodo in cui questo genio non capiva nemmeno cosa gli nasceva in testa, gli nasceva e basta. Non capiva il senso di questo suo strano, unico modo di immaginare le cose.
In questa fase è meglio non imbattersi in persone troppo disposte a capirti: fanno danno e basta. Meglio un allenatore anziano, simpatico, magari ubriacone, uno che di giocatori ne ha visti tanti e che vedendo quanto sei bravo ti dà fiducia, ti grida “più forte, ragazzo”, ma senza nessuna pretesa di dirti chi sei. Occorre un po’ di solitudine, senza ascoltare le sirene. In gioco ci sei tu: la pelle che vogliono comprare è la tua, non quella dei molti profeti.
Mi pare che Mario Balotelli si trovi in questa fase: quella in cui bisogna soprattutto capire se stessi molto bene, pregi e difetti, capire perché la nostra testa funziona in un certo modo, così da poterla aiutare a migliorare; e quando il problema è questo, allora è meglio lasciar perdere gli psicologi e i maghi e fidarsi solo di chi ti vuole veramente bene. Perché qui si tratta di diventare non un difensore centrale del Modena e nemmeno semplicemente un attaccante dell’Inter, ma uno dei più grandi calciatori del mondo.
È molto importante, ripeteva Cassius Clay-Muhammad Alì, avere ben chiari i propri obiettivi e sapere perfettamente quello che si è disposti a perdere pur di ottenerli. Mario Balotelli non può non avere grandi obiettivi, ma forse non sa ancora bene quali sono i sacrifici necessari per raggiungerli. Non è più una questione tecnica, e nemmeno un problema risolvibile con qualche giocata di alta classe: è un dramma che si consuma nella solitudine. Non vorrei sembrare retorico se dico che questo dramma è il dramma della libertà, ma le cose stanno proprio così.
Quello che noi tifosi dobbiamo capire è che Mario Balotelli non è destinato a diventare un grande campione per noi, ma lo è innanzitutto per se stesso. Dio ha creato appositamente per lui metri, centimetri e millimetri speciali. Se appare un po’ bizzarro, difficile, ritroso e a qualcuno potrebbe dare l’impressione di essere in fase di stupidera, be’, non è così. Questo ragazzino ha ricevuto una scatola molto più grande della nostra, con il compito di riempirla. Non è facile, non si sa se ci riuscirà, e dovrà farlo lui e solo lui.
Ai tifosi e ai tecnici due sole richieste: la prima è quella di volergli bene, la seconda è quella di accettare di non capire.

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