Formazione

Cari professori, le regole non bastano

Dialogo con Ivo Lizzola, preside dell'Università di Bergamo

di Marco Dotti

«Le procedure servono, ma limitare l’insegnamento a questo significa negarlo. Ai giovani occorre trasmettere la capacità di relazionarsi con gli altri». Attenti dunque a non farsi prendere «dall’ansia del controllo
dei saperi specialistici»
Adispetto di letture tra il catastrofico e il rassegnato, il nostro sembra essere il tempo opportuno per riconquistare un dialogo tra generazioni. Un dialogo che riparta dalla scuola e dall’università, riprendendo proprio in quei luoghi che tutti vorrebbero in crisi il filo di una relazione con l’altro che è soprattutto – osserva Ivo Lizzola, preside del corso di laurea in Scienze della Formazione dell’Università di Bergamo – «consegna di futuro e capacità di un nuovo inizio». Lizzola pone quindi al centro della propria ricerca il tema della «fraternità tra sconosciuti», intesa non come una «virtù da esercitare, ma come condizione nella quale riconoscersi».
Vita: Un ragazzo che intenda oggi affrontare un percorso di formazione a livello universitario si trova spesso dinanzi all’alternativa tra specializzazione precoce e formazione generica. Esiste una via di mezzo?
Ivo Lizzola: Nel lavoro e quindi anche nella formazione al “sociale” si è molto prossimi a quella che potremmo definire una “nudità umana”. L’altro è ciò a cui non posso sottrarmi, ma non per servitù bensì – come scriveva Emmanuel Lévinas – per elezione. L’altro richiede attenzione, ma l’ansia del controllo dei saperi specialistici che ha travolto gran parte dei nostri insegnamenti mortifica questa attenzione, la schiaccia sotto un fardello composto da classificazioni e diagnosi, strumenti e tecniche che assorbono interamente le energie degli studenti prima e degli operatori poi. È una tendenza molto diffusa che ha sostituito l’attenzione con i protocolli: si cerca riparo nei sistemi “asettici”, nelle procedure, nel controllo di un linguaggio e di una tecnica che non obblighino a metterci in gioco. Neppure nell’insegnamento, neppure nell’apprendimento. L’università in questo non fa eccezione, anzi potremmo dire che è il campo dei saperi parcellizzati e dei linguaggi tecnici. Ciò nonostante, è proprio lì che si apre la sfida e questo i ragazzi lo sanno. Siamo noi che spesso li trattiamo come “sintomi” di un disagio che non è loro o, quanto meno, non è soltanto loro, ma attiene al nostro tempo generale. Li condanniamo a una frustrazione, se oltre al necessario bagaglio tecnico non li indirizziamo all’attenzione, che è poi sinonimo di cura. Ma quest’ultima rifugge dalla risposte immediate, chiede elaborazione, va affrontata con l’umiltà e la tenacia di domandare, attendere, non pretendere tutto e subito.
Vita: Un alto livello di formazione professionale è comunque richiesto o mi sbaglio?
Lizzola: Nel lavoro educativo e in quello della cura in genere abbiamo bisogno di tecniche e strumenti, come di regole e procedure, tuttavia se ci si chiude in queste ci si perde. Si perdono gli studenti, si perdono i docenti, ma soprattutto ci si arrende alla distanza dell’altro e si finisce per abbandonarlo al proprio destino, affogandolo sotto una sfilza di diplomi. Spesso è proprio la formazione, dentro e fuori l’università, che rischia di fornire più che strumenti per affrontare la crisi, vie di fuga dalla crisi stessa, esaurendo il proprio compito nell’offrire solo le metodologie, le tecniche, il controllo dei saperi specialistici. Così chi si sente incerto cerca rifugio e magari lo trova là, dove gli vengono offerte risposte semplicistiche e immediate. Questo è ciò che i ragazzi non dovrebbero fare, perché è l’esatto contrario di una formazione coerente, è uno specialismo asettico che non porta a nulla.
Vita: C’è poi una scuola diffusa, sui territori, nei centri della cura, ma anche tra oratori e istituti secondari di cui spesso l’università non tiene conto…
Lizzola: Sul territorio ci sono infatti palestre educative formidabili, che garantiscono l’incontro con l’altro a un livello inaspettato. Palestre in cui i giovani si formano al confronto, alla politica e alla vita attiva ben più di quanto potremmo sospettare guardando tutto dall’alto delle nostre torri d’avorio universitarie. Nostro compito è coinvolgere questi piani molteplici del sapere e del fare.
Vita: Esistono dunque risposte non semplicistiche alla domanda da cui eravamo partiti: come uscire dall’alternativa tra formazione iperspecialistica o generica?
Lizzola: Certamente, serve però una sensibilità educativa particolarmente attenta. Risposte non immediate sono quelle che ci hanno offerto e ci offrono coloro che hanno “attraversato” la condizione della fragilità e sono testimonianza vivente della possibilità di entrare nell’incontro con l’altro in maniera responsabile e riconoscere in tal modo un vincolo di fraternità tra sconosciuti. Credo sia compito dell’università non sciogliere tale vincolo e questo, probabilmente, i ragazzi lo sanno e questo ci chiedono: esperienza e valorizzazione della loro capacità di cura.


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