Formazione

Cari prof, spiegare il libro non ha più senso

Molti insegnanti identificano la didattica con la lezione e la loro professionalità con la capacità che hanno di spiegare, di “mediare” il libro di testo rendendo poi più facile agli studenti capirlo e studiarlo: “se stai attento a scuola, poi tutto ti sarà più chiaro”, si dice. Questo non ha più senso. Oggi la didattica - e quindi a monte l'insegnante - deve porsi un'altra questione: «Come si formano cittadini attivi e responsabili?»

di Giovanni Biondi

Per molte famiglie questa parola (didattica) prima della pandemia aveva un significato incerto. Faceva parte del vocabolario scolastico ma in genere riguardava gli insegnanti e gli addetti ai lavori. Improvvisamente è entrata nelle case con la declinazione di DAD – Didattica a Distanza, scindendosi quindi in due: didattica in presenza, con le scuole aperte e a distanza, con le scuole chiuse.

L’espressione DAD così immediatamente ha sposato la sua esistenza alle tecnologie: computer e collegamenti internet necessari per superare la distanza tra studenti ed insegnanti. Questo binomio quindi è entrato nel linguaggio comune e la didattica a distanza è stata associata ad una soluzione di emergenza, quasi un male necessario.

La distinzione presenza-distanza è sembrata la discriminante principale per distinguere la strada principale da quella secondaria, quella con i ciottoli, la polvere e le buche. E di buche ce ne sono state tante in questa strada obbligata. Chi non era attrezzato, ed era la maggioranza, ha dovuto acquistare l’attrezzatura e soprattutto imparare ad usarla. Poi l’ha percorsa nel modo con cui era abituato a percorrere la strada di tutti i giorni e le buche, i ciottoli, la polvere hanno fatto la loro parte per dimostrare che questa era davvero una strada secondaria.

È chiaro che il parametro col quale misurare la didattica non poteva essere quello della distanza-presenza. Riproporre lo stesso modello frontale, la stessa liturgia fatta di lezioni ed interrogazioni ma usando webcam e computer, non poteva che risultare una esperienza peggiorativa. Dopo questa esperienza è risultato chiaro a tutti che la didattica è fatta di una molteplicità di cose: di come si organizza il tempo ma anche lo spazio, l’ambiente, reale o virtuale che sia, degli strumenti e delle metodologie che si adotta, dei percorsi di apprendimento che si propone. L’insieme di queste scelte determina la qualità della didattica e dei risultati.

Molti insegnanti identificano la didattica con la lezione e la loro professionalità con la capacità che hanno di spiegare, di “mediare” il libro di testo rendendo poi più facile agli studenti capirlo e studiarlo: “se stai attento a scuola, poi tutto ti sarà più chiaro”, si dice. A scuola, quindi, si chiede di imparare soprattutto ascoltando e leggendo. E questa è stata l’impostazione anche della maggioranza delle esperienze di didattica a distanza: lezioni on line e pagine da studiare, esercizi da fare dopo essere stati in collegamento con gli insegnanti.

Quindi cosa resterà dopo che questa pandemia sarà solo un ricordo, come tutti ci auguriamo? Le strade secondarie continueranno ad essere percorse dai pochi insegnanti in cerca di nuove soluzioni e il traffico riprenderà sulla strada principale, quello della didattica in presenza dove non ci sarà più necessità del computer, della rete, delle piattaforme, delle password, delle webcam.

La didattica però resterà un problema irrisolto perché quella strada maestra che siamo abituati a percorrere non è più adeguata agli studenti di oggi, molti dei quali abbandonano il viaggio, e le scuole sono costrette “ad abbassare i limiti di velocità”, ad abbassare le asticelle del salto in alto per permettere a tutti di saltare, ottenendo però risultati sempre più modesti. Alle uscite autostradali ci saranno poi i caselli per entrare nel mondo del lavoro dove si pagherà un pedaggio sempre più pesante e dove si stazionerà spesso per anni perché non si hanno le competenze necessarie.

Forse a molti genitori tornare alla didattica in presenza potrà apparire una vera liberazione e li rassicurerà nello stesso tempo sul fatto che siamo tornati sulla via maestra quella che anche loro hanno percorso qualche decina di anni prima. Ma il tema è proprio questo: la didattica è la stessa di quella che hanno conosciuto quando erano studenti, nel secolo scorso quando non solo non c’era internet ma neppure i telefonini, non c’era la posta elettronica ma i telegrammi, i treni rapidi non l’alta velocità, le biglietterie nelle stazioni non le app per acquistare i biglietti, gli” amici di penna”, quelli che stabilivano amicizie scrivendosi una volta la settimana non i social. Insomma la radicale e profonda trasformazione della nostra società che ha influenzato profondamente anche le strategie cognitive dei nostri studenti, quei “digital native” che siedono oggi sugli stessi banchi e nelle stesse aule dei loro genitori.

Non è l’uso o meno della tecnologia che cambia la didattica. Chi ha fatto come chi ha seguito lezioni davanti allo schermo lo può testimoniare. L’averle fatte in presenza oppure on line non determina di per sé un cambiamento e soprattutto non è questo che può cambiare la didattica. Anni fa ho seguito due MOOC (Massive Online Open Course), sull’analisi di Big data, organizzati da due diverse Università. Il primo era strutturato in lezioni teoriche (nascita, struttura, strategie, analisi) con l’apporto di esempi e di punti di vista diversi, da quello sociologico a quello statistico e informatico. Una ricca bibliografia e quindi libri ed articoli da leggere ed ogni iscritto doveva poi studiare singolarmente: erano poi previsti esami per chi voleva ottenere una certificazione: un percorso tradizionale che avrei potuto benissimo frequentare in un’aula universitaria e che invece seguivo on line, magari scegliendo io i tempi e i luoghi che mi erano più comodi. Il secondo corso, dopo un paio di lezioni introduttive su alcuni software, proponeva di partecipare attivamente all’analisi di un caso, utilizzando i dati di un database di alcuni ospedali americani per trovare quelli che avevano i migliori risultati nelle cure di una particolare malattia. Così, incoraggiati dai docenti, in rete si sono formati gruppi di studenti che hanno iniziato a cooperare per provare le diverse strategie, confrontare on line i risultati e così via. Successivamente sono intervenuti i sociologi che, proponendo letture diverse di questi dati in rapporto al livello economico e di istruzione della popolazione, ci hanno invitati a incrociare altri database o a provare simulazioni per costruire i risultati in forma grafica.

Non era l’uso della tecnologia a differenziare i due corsi, dal momento che entrambi usavano la rete e presupponevano l’utilizzo dei linguaggi digitali. Quello che li differenziava era invece la metodologia: in un caso si sarebbe potuto fare anche a meno della tecnologia, nell’altro invece era essenziale; in un caso si studiava da soli per una verifica individuale, nell’altro si imparava anche a collaborare ma soprattutto, oltre a una serie di conoscenze alla conclusione del corso si erano sviluppate delle competenze.

La didattica quindi è la risposta che siamo in grado di dare sia agli studenti che abbiamo di fronte, è anche la risposta alla domanda che ogni insegnante si deve porre sulla natura delle conoscenze e delle competenze che oggi questa società richiede per esercitare una cittadinanza attiva e responsabile, per entrare nel mondo del lavoro, per avere un livello culturale adeguato ad una società sempre più complessa. Ridurre tutto alla contrapposizione presenza-distanza è quindi una semplificazione inadeguata.

*Giovanni Biondi è presidente di INDIRE. Il testo è apparso sul numero di VITA di settembre, dedicato alla scuola.

Foto da Pexels

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