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Cari giudici, ma come parlate?

di Daniela Verlicchi

Tra letteratura e giurisprudenza c’è una bella differenza. E Gianrico Carofiglio, che da tempo ha oltrepassato il confine lo sa bene. E a Piacenza ha provato a spiegarlo ai visitatori del Festival del Diritto, denunciando i mali del “giuridichese”.

“Giuridichese”, ovvero?
La parola intesa come esercizio di un potere. Il gergo che esclude chi non lo capisce.
Quali sono i virus che corrodono il linguaggio giuridico?
Il peggiore è non chiamare le cose per nome. Da qui deriva l’abuso della forma passiva e l’uso delle doppie negazioni. Alla base di tutto c’è una certa insicurezza culturale: è una “coperta di Linus” per nascondere l’imbarazzo di non affrontare questioni tecniche. La sentenza, al contrario, dovrebbe essere un teorema matematico.
È per sfuggire a questi virus che ha cambiato mestiere?
Non ho cambiato mestiere: sono un magistrato in aspettativa. Non ho mai aderito in pieno a questo stile. Ma anch’io ho avuto degli eccessi e, a volte, li ho trasferito sulle pagine dei miei libri. Fortunatamente non mi è capitato nell’ultimo, Né qui né altrove, che uscirà a novembre.


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