Welfare

Cari colleghi adesso zitti

Il pool Mani pulite e il ministro di Giustizia, complici i media, hanno screditato un sistema penale già in coma.Se ne esce solo riducendo i tempi processuali e non i gradi di giudizio.

di Giuliano PIsapia

Davanti alle carenze della giustizia, tutti cercano di addossare le proprie responsabilità ad altri proclamando la propria innocenza di fronte a colpe più che oggettive. Da questo punto di vista quello che stiamo vivendo è un agosto terribile e per nulla edificante. Lo hanno fatto i magistrati del pool di Mani pulite che nei giorni scorsi hanno cercato di giustificarsi per i processi mai portati a termine, e lo ha fatto il ministero di Grazia e Giustizia che ha contribuito ad accentuare la sensazione del fallimento del sistema penale. Dando fiato così alla superficialità e all’interesse a cavalcare il malcontento diffuso. I toni allarmistici di tivù pubbliche e private e di alcuni quotidiani che hanno diffuso la certezza secondo cui quasi nessuno, in Italia, sconterebbe la pena hanno fatto il resto. In realtà la pubblicazione del monitoraggio realizzato dal Casellario centrale ha confuso i dati reali sulle pene non eseguite a causa di errori giudiziari con i dati che invece riguardano l’utilizzo delle misure alternative fuori dal carcere, le pene sostitutive e quei casi numerosissimi di persone che sono al loro primo reato e a cui la legge (e non la discrezionalità dei giudici) permette di evitare quella “scuola di crimine e criminalità” che sono molti dei nostri istituti penitenziari. Quando si parla di giustizia e carcere, ci si dimentica sempre che la detenzione non è l’unica pena prevista dal nostro codice penale e che, eseguire una condanna fuori dal carcere non equivale a scegliere la via dell’impunità, anzi. In questa confusione generale prevalgono due schieramenti: una parte della magistratura che confonde il desiderio di maggiore efficienza con la riduzione delle garanzie e una parte dei politici del centro-destra che invece considerano le garanzie come dei privilegi. Ecco perché si assiste a proposte bizzarre, come quella di rendere esecutiva la pena dopo la sentenza di primo grado. Eppure nel nostro Paese il 58% delle sentenze di primo grado vengono modificate in appello e il 23% in Cassazione e il 70% delle sentenze di primo grado vengono poi archiviate con sentenza di assoluzione alla fine dell’iter processuale. L’Italia detiene il record europeo delle ingiuste detenzioni e dal 1992 al 1997 ci sono stati 3502 detenuti incarcerati ingiustamente che hanno richiesto e ottenuto un risarcimento dallo Stato. Ma il numero va raddoppiato se consideriamo le persone ingiustamente incarcerate che non ne fanno richiesta. Inoltre oggi l’esecuzione della pena viene spesso eseguita subito, attraverso la custodia cautelare.
Il nodo del giusto processo non consiste, quindi, nella riduzione dei gradi di giudizio, ma nel ridurre i tempi processuali attraverso delle riforme che sono già state approvate in Parlamento e che saranno operative dal secondo semestre del 2000. Questa è la vera battaglia. Fra le misure che dovrebbero contribuire a una giustizia più efficace e certa, la depenalizzazione dei reati minori, il giudice unico, il rafforzamento dei riti alternativi, il patrocinio gratuito per i non abbienti (una battaglia che conduco da anni per riuscire a innalzare la soglia ridicola dei 10 milioni di reddito familiare) che in futuro permetteranno di creare una giustizia garantita e garantista, accorciando i tempi dei processi e riservando il carcere ai reati gravi. Il fatto è che molti ignorano il lavoro già fatto sulle riforme, compreso Carlo Federico Grosso, che stimo molto ma che avanza delle proposte che sono già sul tappeto del Parlamento. Bisogna fare attenzione, però, alle imboscate. Basta che un tassello di queste riforme non venga definitivamente approvato o che una nuova legge venga in futuro stravolta e allora ci troveremmo veramente davanti allo sfascio irreversibile della giustizia. Per creare un sistema equo, basato sulla certezza della pena, che non dimentichi le garanzie, e quel mezzo milione di persone che dal ’75 ad oggi dopo aver espiato la pena non ha più commesso reati, non serve fare calcoli politici e cavalcare l’onda emotiva dell’elettorato, ma lavorare seriamente. Con coerenza.

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